di Lorenzo Lazzeri
L’attuale era geologica, l’Antropocene, vede l’azione umana essere una forza dominante, con una profonda alterazione del rapporto tra uomo e ambiente. L’erosione del suolo, processo naturale ma oggi accelerato dall’intervento antropico, è divenuta una questione centrale per la sostenibilità. In particolare il contesto alpino rappresenta un laboratorio naturale dove le tracce di questo impatto sono evidenti e misurabili.
Il concetto di Antropocene, coniato nel 2000 da Paul Crutzen, è caratterizzato dal riconoscimento di una discontinuità geologica: da semplice attore biologico l’uomo si è trasformato in agente geomorfologico, capace di rimodellare il sistema terrestre. Non si tratta di un cambiamento irrilevante, ma di una vera e propria metamorfosi che impone una responsabilità ecologica su scala planetaria.
L’antropizzazione del territorio – ovvero il complesso degli interventi umani sull’ambiente – si è manifestata con accelerazioni storiche: dalla domesticazione del fuoco, alle pratiche agricole, all’industrializzazione. A oggi le modificazioni della superfice terrestre causate dall’uomo eguagliano o superano quelle frutto di processi naturali, e molte trasformazioni non sono più reversibili. L’erosione si compone di due fasi principali: distacco e trasporto, innescate da acqua e vento e influenzate dalla copertura vegetale. Nei climi alpini l’erosione pluviale prevale e si manifesta con ruscellamento, solchi, sedimenti e, nei casi più estremi, affioramento di strati sottostanti.
Il fattore umano ha tuttavia amplificato i processi erosivi oltre ogni precedente naturale. Pratiche come agricoltura intensiva, disboscamento, sovrapascolo e urbanizzazione riducono la copertura vegetale, rendendo il suolo più vulnerabile. L’aratura muove circa 1.500 gigatonnellate di suolo all’anno a livello globale, con tassi di perdita dieci volte superiori alla formazione naturale: uno squilibrio che minaccia la sicurezza alimentare.
Le Alpi rappresentano il caso emblematico di queste dinamiche. Uno studio coordinato da Julien Bouchez del CNRS francese, pubblicato su PNAS, ha ricostruito – grazie all’analisi degli isotopi di litio nei sedimenti lacustri – una cronologia delle attività umane nelle Alpi francesi negli ultimi diecimila anni. I primi cambiamenti importanti si osservano circa 3.800 anni fa, nell’Età del Ferro, quando le comunità locali cominciano a portare le mandrie in quota e disboscare per facilitare il pascolo. Questa prima fase segna la rottura dell’equilibrio naturale tra formazione ed erosione del suolo.
Circa mille anni dopo si registra una seconda accelerazione a media e bassa quota con lo sviluppo dell’agricoltura e l’introduzione dell’aratro, che intensifica ulteriormente il fenomeno erosivo. Una terza fase, dal tardo periodo romano all’epoca contemporanea, vede la continua evoluzione delle tecniche agricole e una pressione crescente sui versanti montani. Lo studio sottolinea che l’avvio delle attività agro-pastorali ha portato a tassi di erosione da 4 a 10 volte più rapidi rispetto alla produzione di terreno dalla fine dell’era glaciale, tanto da giustificare il termine di “Antropocene pedologico” per le Alpi.
Il fenomeno non è stato sincrono in tutto il mondo, ma dipende dalla diffusione delle prime comunità agricole e pastorali e dalle pratiche adottate. L’accelerazione dell’erosione nei territori alpini non si limita a compromettere la fertilità dei suoli: mina anche la biodiversità, i cicli dell’acqua e del carbonio e la stabilità stessa dei versanti.
I cambiamenti climatici globali agiscono come catalizzatori, accentuando la vulnerabilità degli ambienti alpini. L’aumento delle temperature, che nelle Alpi supera il trend globale, ha portato alla riduzione del 50% della massa glaciale negli ultimi cento anni e allo scioglimento del permafrost, con la conseguente instabilità dei versanti e il moltiplicarsi di frane, colate e crolli rocciosi. Gli eventi meteorologici estremi, come piogge intense e siccità, agiscono su terreni ormai privi di protezione, esacerbando un circolo vizioso di degradazione.
Il degrado del suolo e l’erosione non sono più soltanto questioni ecologiche, ma crisi che hanno gravi ricadute sulla produttività economica, la stabilità sociale e la salute umana. La perdita di suolo coltivabile e di sostanze organiche accelera la desertificazione, mentre la diminuzione della capacità di assorbire carbonio rende i suoli potenziali fonti di gas serra. Questi dati sottolineano l’urgenza di strategie innovative per la tutela degli ambienti naturali, la cui resilienza è oggi messa seriamente alla prova dalle nostre scelte.