Il bel film per la tv su Nino Manfredi interpretato da un talentuoso Elio Germano e che ha ottenuto un grande successo di pubblico (5milioni e 600mila spettatori, 23,4% di share) e di critica, ha riportato d’attualità sui social ma anche nei discorsi della quotidianità, il popolare attore ciociaro, uno dei personaggi più amati del mondo dello spettacolo.
La sua bravura, la sua ironia e soprattutto le sue pellicole memorabili che lo fecero diventare uno dei “colonelli della Commedia italiana” insieme a Sordi, Tognazzi e Gassman, sono state ricordate con post, tweet e commenti di stima, affetto e nostalgia. Potenza di un biopic e soprattutto potenza di un attore fra i migliori delle nuove leve, che con la sua interpreazione intensa ha fatto rivivere senza cadere nella macchietta e nella facile retorica, un attore immenso.
Sulla scia di questo dovuto e sentito amarcord che ha contagiato un po’ tutti, anche noi di globalist vogliamo ricordare Nino Manfredi, rivolgendo l’attenzione su uno degli aspetti meno “pubblicizzati” della sua personalità artistica, ovvero la sua passione per la musica e per il canto (come si è visto nel film, Nino suonava la chitarra e sapeva cantare), passione che nel corso della carriera ha esercitato a più riprese interpretando brani e incidendo dischi.
Tra i tanti che ha lanciato e registato, il più famoso è sicuramente “Tanto pe’ cantà”, un successo clamoroso che arrivò addirittura ai vertici di Hit Parade, caso rarissimo per un 45 giri inciso da un attore e che legittimò le ambizioni canore e musicali del futuro Geppetto televisivo.
Il brano era stato lanciato negli anni Trenta dal grandissimo Ettore Petrolini che ne era anche autore insieme al giornalista Alberto Simeoni (“Casetta de Trastevere”), Nino lo ripropose come ospite d’onore a Sanremo in una veste più attuale con l’arrangiamento di Maurizio De Angelis, facendolo diventare con la sua ironia sorniona una sorta di “atto unico”.
Reduce dal trionfo cinematografico di “Nell’anno del Signore” il capolavoro firmato da Luigi Magni in cui interpretava il ciabattino Cornacchia, “voce” della statua parlante Pasquino, Nino venne chiamato al Festival del 1970 dagli organizzatori Radaelli e Ravera. E in quel Sanremo vinto dalla coppia Celentano-Claudia Mori con “Chi non lavora non fa l’amore” seguita da Nicola Di Bari con “La prima cosa bella” e Sergio Endrigo con “L’Arca di Noè”, lui fece un figurone.
Chiamato alla ribalta dai colleghi Enrico Maria Salerno e Ira Furstemberg, presentatori della kermesse, Manfredi resse la scena da navigato artista (con Rugantino di Garinei e Giovannini aveva dominato ovunque, anche in America) e dopo aver ipnotizzato la platea del Salone delle feste del Casinò e quella televisiva col parlato della canzone, conquistò l’applauso a scena aperta quando intonò il ritornello che dà il nome al brano. Un trionfo.
E non poteva essere diversamente, perché “Tanto pe’ cantà” è una canzone allegra, spensierata, dal refrain di facile presa e che affonda la sua ironia nel romanesco brillante del varietà e che grazie a un Manfredi in grande spolvero riuscì a scrollarsi di dosso la polvere del passato per tornare più viva e “più superba che pria” (cit. Petrolini) e diventare così popolarissima e col passare del tempo uno standard interpretato da tanti altri artisti.
La riproponiamo e riascoltiamo perciò volentieri per dire grazie a Nino Manfredi, alla sua arte e alle emozioni che ci ha sempre regalato. Anche in musica, tanto pe’ cantà.