di Alessia de Antoniis
Marivaux, lo sconosciuto che ha rivoluzionato la commedia francese, torna in Italia grazie a Beppe Navello. La seconda sorpresa dell’amore al teatro “La pergola” di Firenze
In anteprima al “Teatro Era” di Pontedera il 21 novembre e in prima nazionale al “Teatro della Pergola” dal 23 al 28 novembre, debutta La seconda sorpresa dell’amore di Pierre de Marivaux, tradotto e diretto da Beppe Navello. In scena Daria Pascal Attolini, Marcella Favilla, Lorenzo Gleijeses, Fabrizio Martorelli, Stefano Moretti, Giuseppe Nitti.
Marivaux, famoso commediografo francese del diciottesimo secolo, autore tra la Comédie-Française e il Théâtre des Italiens, poco conosciuto in Italia, è ora al centro di un’operazione italo francese che ha l’obiettivo di tradurre e rappresentare le sue opere. Uno dei protagonisti del progetto è Beppe Navello, regista e direttore artistico, che ritorna a Marivaux con La seconda sorpresa dell’amore.
“C’è bisogno di molta complicità emotiva tra la platea e il palcoscenico perché questa commedia abbia successo. – spiega Navello – Mi piace pensare, da italiano, che se nel 1727 fosse stata rappresentata da les Italiens, con la spontaneità del loro gestire, con la semplicità del dire opposto all’enfasi tragica, con l’esibire i volti senza maschera per valorizzare le espressioni e i soprassalti mimici, con la loro capacità di prendersi in giro, forse questa commedia avrebbe avuto più successo. Speriamo che, dopo quasi trecento anni, sia questa l’occasione per dimostrarlo”.
Nella sua lunga carriera teatrale, mi ha colpito la lista di spettacoli teatrali che ha fatto in radio tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta.
Quando ero un giovane regista assistente di Missiroli. La Rai,era la mia seconda attività. In quegli anni la radio era molto seguita. Ricevevo riscontri gratificanti da persone che la sera, invece che guardare la televisione, si mettevano ad ascoltare radiodrammi o programmi culturali. Poi all’improvviso è finito tutto. Quella radio culturale, di approfondimento, non si è più fatta. Ha prevalso la radio che abbiamo ancora oggi, quell’intrattenimento salottiero che ascoltiamo tutti andando in auto.
La seconda sorpresa dell’amore è in scena per tutto il mese di novembre anche a Parigi, all’Odeon…
Sì, con la regia di Alain Françon . Ho avuto riscontri da amici che sono andati alla prima. Fino al 28 novembre sono alla Pergola, poi spero di andare a vederlo. Da loro gli spettacoli restano in cartellone anche un mese. Da noi, invece, le programmazioni sono diventate sempre più brevi. A Roma una volta uno spettacolo stava un mese, adesso si stenta a fare una settimana.
Così è complesso creare quella coesione che caratterizzava le compagnie…
Tutti gli attori de La seconda sorpresa dell’amore, sono artisti con cui ho lavorato per oltre dieci anni a Torino al “TPE”, dove siamo rimasti finché ce lo hanno consentito. Ho riunito di nuovo tutti gli attori della compagnia, perché è più semplice lavorare con attori che si conoscono. Si ottengono risultati artistici migliori.
Mi fa venire in mente un pensiero cattivo: abbiamo sostituito le vecchie compagnie con i gruppi di amici che lavorano insieme per conoscenza…
Sull’argomento taccio. Ma sono pensieri che vengono in mente a chi fa teatro. Il nostro è un Paese che consente con molta difficoltà la continuità dei rapporti artistici tra registi, programmatori, attori e teatri. Continua ad essere un teatro fatto di soprassalti nervosi. Ci sono poi relazioni personali che cercano di affermarsi aldilà delle difficoltà dei percorsi teatrali.
In Francia Marivaux ha rivoluzionato il genere della commedia sentimentale, ha scritto commedie sociali su temi come la libertà e l’uguaglianza tra gli individui, o la situazione delle donne. È stato coniato il termine marivaudage per descrivere il suo stile drammaturgico. Nel 2001 da una sua commedia è stato tratto Il trionfo dell’amore con Mira Sorvino e Ben Kingsley. In Italia non sappiamo chi sia.
Questo è vero. Negli ultimi anni del secolo scorso, dagli anni Settanta in poi, è stato rappresentato anche con esiti artistici interessanti. Tra questi Strehler al Piccolo, con L’isola degli schiavi. Versione accompagnata da piccole sventure, come Massimo Ranieri che si infortunò decretando la fine delle rappresentazioni. Marivaux non è però riuscito ad entrare nei repertori italiani con continuità. Forse perché, del tutto arbitrariamente, lo si accosta a Goldoni. L’epoca più o meno era la stessa e Goldoni sembra più facile, più popolare, più vitale nella raffigurazione dei suoi personaggi. Marivaux è più raffinato, più introspettivo, più attento al marivaudage, a questa conversazione che spacca il capello in quattro. In Italia i produttori, pubblici e privati, preferiscono Molière o Feydeau.
Ha prediletto il teatro del Novecento. La poca conoscenza di drammaturghi del Novecento, al di là di Pirandello, è un fenomeno tipico italiano?
Moltissimi teatri hanno in cartellone spettacoli di nuova drammaturgia. Sono però spettacoli di attualità. Affidano a un drammaturgo un tema, un argomento che si sente urgente e in qualche modo lo si sviluppa. Il teatro italiano, essendo sempre legato all’attualità e alla cronaca, ha proprio dimenticato la drammaturgia italiana. Ci sono attori enormi, come Dario Fo, premio Nobel: chi lo ha più rappresentato dopo la sua scomparsa? Moravia o D’Annunzio hanno subito la stessa sorte. C’è una strana disattenzione. Questo in Francia non avviene. Abbiamo la memoria corta, non solo in teatro, ma anche in politica e in altri aspetti della vita.
Citava Dario Fo. Quando vinse il Nobel, molti non sapevano chi fosse, altri si stupirono. Sicuramente c’è anche una tendenza italiana a osannare gli altri e disprezzare noi stessi…
Sì, salvo poi lamentarsi che sono trent’anni che non ci arriva un Nobel. Non so dirle se Dario Fo sia uno degli autori più importanti del Novecento, ma quando avevo diciott’anni, a Parigi, per Isabella, tre caravelle e un cacciaballe, c’era la code fuori al teatro. Lui aveva forse quarant’anni ed era già un autore europeo apprezzato al di là dei confini italiani. E in scena non c’era Dario Fo: era una compagnia francese che rappresentava la sua opera.
È stato a lungo direttore del “Teatro stabile dell’Aquila”, del “TPE” (Teatro Piemonte Europa). Ora è nel teatro privato. I teatri pubblici sono stati abbondantemente finanziati dal FUS. Un bilancio dopo la pandemia?
Il mio progetto su Marivaux, nato in Francia un paio di anni fa, è stato finanziato, dopo la pandemia, dal ministero della Cultura, al quale va la mia gratitudine. L’obiettivo è quello di pubblicare tutto Marivaux in italiano, colmando la lacuna esistente. Speriamo di avere anche una seconda annualità di questo contributo, per realizzare un’altra opera mai rappresentata in Italia, e pochissimo anche in Francia: “Le Colonie”, sulla condizione femminile.
Spero si trovi il modo di aumentare i fondi fuori FUS per sovvenzionare progetti indipendenti. Bisogna aiutare tutte quelle situazioni che sono fuori dalle istituzioni, dando così anche a loro la possibilità di fare progetti che abbiano una continuità pluriennale. Bisognerebbe trovare il modo di sovvenzionare anche quelle iniziative che nascono in maniera più estemporanea, come la nostra. Questa che mi vede coinvolto, è un’operazione italo francese che va al di là del singolo progetto teatrale. Ci saranno convegni, pubblicazioni di testi, lavori tra varie università: una simile operazione ha bisogno di sostegno pubblico.
I grandi teatri non beneficiano solo dei fondi statali, ma anche di quelli regionali. Alcuni di loro sono fondazioni che hanno nel consiglio di amministrazione soggetti pubblici. Eppure, a differenza della Francia, il teatro in Italia è sempre più marginale. Dove sta il cortocircuito?
Il sistema francese, con uno Stato centralista, è un sistema che si è radicato molto prima del nostro sistema pubblico. La riforma francese degli anni Sessanta ha creato una rete di teatri territoriali, pubblici, sostenuti dal ministero della Cultura, dalle Regioni e dai dipartimenti, che operano in centri anche piccolissimi, dove il teatro è un importante presidio di convivenza civile. È un sistema dove il teatro è stato pensato come veicolo di informazione e di formazione delle comunità territoriali. Da noi è avvenuto quello che lei chiama un cortocircuito, per cui la cultura italiana, quella pubblica, ha pensato che il teatro fosse superato e ha inseguito modelli televisivi che sembravano più capaci di attrarre l’attenzione e il consenso del dibattito civile. Un modello disastrosamente vincente dove il teatro ha perso la sua funzione e la sua centralità sociale.
Non è più al centro delle città, nelle periferie. Se penso a città come Roma, che è rimasta con due o tre teatri che realmente funzionano, mentre a Parigi ce ne sono 100, è uno sconforto. E questo è successo per colpa di tutti noi che abbiamo pensato, ad un certo, che ci fosse un luogo più importante di comunicazione spettacolare. È un processo iniziato negli anni Ottanta e probabilmente ora è difficile tornare indietro. Cosa si può fare non lo so. Qualcosa è stato fatto con la riforma del 2015 da parte del ministero della Cultura. Intravedo delle volontà serie di riformare il settore e di salvare un patrimonio importante per l’Italia com’è il teatro. Siamo tra gli inventori del teatro moderno…
Sì, però nessuno sa chi sia il regista, mentre si va a vedere l’attore famoso a teatro. Non sappiamo chi sia lo scenografo, ma poco male tanto le scenografie non le usa quasi più nessuno…
Questa è una cosa importantissima. Io ci tengo che nei miei spettacoli ci siano le scenografie. Questo paese, in particolare la Toscana, ha inventato la scenografia nel Cinquecento. Eppure ormai viene considerata una fonte di spreco. Gli scenografi sono tra gli artisti più umiliati e respinti dal sistema teatro.
Non le è mai capitato di sentir chiedere quanto dura uno spettacolo?
Sì, è assurdo. Il teatro oggi non deve più neanche disturbare.