Ho incontrato Claudio Signorile e ci siamo scambiati ricordi e riflessioni sulla conoscenza reciproca di Carmelo Bene. È stata un’interessante conversazione che riporto in occasione dell’anniversario della sua scomparsa avvenuta il 16 marzo 2002.
(Maenza) Da qualche tempo sono impegnato nella redazione di un volume che ricorda un grande pugliese, che rimarrà nella storia italiana per un bel po’ di tempo, così ci auguriamo. È bello che uno come te, Claudio, che l’ha conosciuto e che ha gli strumenti culturali per descriverlo, ne dia una testimonianza. Si tratta di un omaggio della Puglia a un suo figlio.
(Signorile) Un figlio che si sentiva molto salentino in realtà. Lui non si sentiva tanto pugliese quanto salentino. La Puglia non è una sola, infatti si deve dire le Puglie. Il Salento, la terra di Bari e la Capitanata. Sono tre e ognuna di esse è profondamente diversa dalle altre come cultura, come dialetto, come esperienze storiche, come origini anche etnologiche.
Io e Carmelo Bene siamo coetanei, entrambi nati nel settembre del ‘37. Ci siamo conosciuti a Roma a La Sapienza: io mi iscrissi a Lettere e lui a Giurisprudenza. Avevamo alcuni amici in comune, tra cui Stampacchia. Non era una conoscenza approfondita, chiaro, ma quel che basta per definirla amichevole. Tanto che quando nel ’59 lui realizzò il Caligola nel teatro dell’Università noi, su iniziativa di Stampacchia, contribuimmo al finanziamento. Lui del resto non aveva una lira. Era mantenuto in maniera molto sobria dai genitori, soleva dire.
Da questo punto di vista posso però testimoniare la sua coerenza nella correzione e nell’approfondimento perché fin dalle sue prime produzioni, Carmelo era uno che stava su tutto: sbagliava tante cose, però tante altre le azzeccava. Si è sempre mosso coerentemente sulle grandi scene, dalla strutturazione del testo alla macchina attoriale. Tutto quello che fa di Carmelo il più grande attore creativo di questo secolo, non solo a livello italiano.
Pensa anche a quanto può definirsi attuale. Sviluppò la teoria e la pratica della phonè, applicandola all’evoluzione degli strumenti di comunicazione degli ultimi dieci anni. Pensa a cosa sarebbe capace di creare oggi Carmelo. È proprio creare il termine giusto.
È vero. La phonè l’abbiamo fatta insieme. Carmelo ha cominciato a ragionare sulla phonè quando io gli ho messo in testa un semplice ragionamento: tu comunichi da un di dentro a un di dentro. Però lo devi fare con uno strumento, con quel che ti consente l’elettronica. Il ragionamento è nato lì. È nato con la prima Alla Scala del Manfred: la prima volta che Alla Scala entrò un impianto di 5000 watt.
La tensione concettuale era altissima: io ne sono attore e testimone nello stesso tempo. Allora ero ministro del Mezzogiorno e avevo un paio di incontri con Carmelo per cercare di costruire uno spettacolo tutto impostato sulla phonè, che aveva come suoi riferimenti fondamentali il teatro di Siracusa e il teatro di Epidauro (Epidauro è una città greca del Peloponneso conosciuta per il suo spettacolare teatro). Non ricordo se poi ci fu una crisi politica, io passai di ministero però ci fu un momento il cui termine phonè era diventato un punto di aggregazione di grande respiro. Io ho un enorme dispiacere, perché se questa cosa si fosse realizzata sarebbe stato un passaggio epocale.
Qualcuno dovrebbe riprendere l’aggiornamento, con quelli che sono i nuovi strumenti di comunicazione. E non si tratta di amplificazione. Non è renderlo più grande. È tutta un’altra cosa ed è l’elemento sul quale io mi permetterei di richiamare te e chi sta facendo il libro, e di ricordarlo a chi lo leggerà. Non stiamo parlando di un grande attore, stiamo parlando di un genio assoluto, di una persona che ha prodotto con tutte le sue contraddizioni, carenze eccetera, qualcosa di assolutamente nuovo.
Questo è certo. L’operazione che compimmo al Piermarini Della Scala fu interpretata quasi come una violenza. Ci fu anche uno sciopero sindacale: i sindacati proclamavano la giornata di sciopero perché La scala era stata, come disse qualcuno, deflorata di microfoni e amplificatori.
Questa era la felicità di Bene. Quello che lui voleva.
Carmelo, lo ricordo bene, al primo violino che protestò garbatamente spiegò cos’era per lui la fonica, ovvero lo strumento della phonè. Disse: sa cos’è per me la fonica? È come il suo violino per lei. Lei usa il violino per esprimere con uno strumento quello che ha nella testa e nel cuore. Per me la fonica è esattamente questo, è il mio strumento di espressione. Se lei lo ritiene compatibile con La Scala, mi autorizzi. Se così non è, me ne vado.
È stato davvero un passaggio non adeguatamente compreso. Ma in un certo senso è naturale che sia così, ed è giusto che sia così. Perché è un messaggio che attraversa il tempo e che io spero possa essere ripreso attraverso il lavoro che stai facendo tu, Rino. Siamo in un momento di grande stanchezza e queste sono cose che servono.
Assolutamente. Cos’altro ricordi di Carmelo?
Alti e bassi, devo dire. Però ricordo questo episodio: l’idea dell’Epidauro di Siracusa legata non alla generica phonè, ma alla ricostruzione di Eschilo attraverso la phonè. Superando quindi le barriere linguistiche e il significato, lavorando solo sul significante.
Mi ricordo Carmelo che mi sveglia alle quattro di notte chiedendomi di chiamare il sindaco di Otranto per sbloccare un affare che lo riguardava. Gli avevano bloccato qualcosa che lui voleva costruire nei sotterranei. E lui aveva torto marcio.
Un altro ricordo dei tempi della giovinezza: quella famosa scena in cui fece pipì sul pubblico. Non lo fece per follia o per ubriachezza, ma con la perfetta e lucida scelta dei tempi. La ricerca dell’episodio scandaloso.
Carmelo era un grande da questo punto di vista.
Devo dire anche che, leggendo le sue dichiarazioni e quel che lo riguarda, Carmelo sembra una persona assolutamente inumana. Sembra quasi metafisico nella sua lettura della vita. E invece, nella vita di tutti i giorni, era una persona di una grandissima semplicità.
Verissimo, era semplice in tutto. Anche ai ristoranti. Era parsimonioso persino nel mangiare.
Anche perché era abituato a non considerare i soldi e a non averli.
Agli altri diceva di mangiare di più e lui per sé si prendeva mezzo piatto di capelli d’angelo in bianco e una bistecca. Basta. Ed era persino un grande cuoco. In Versilia ricordo che era straordinario: la sera voleva a tutti i costi preparare la cena e la sua vocazione era quella di fare il pesce.
Non essendo un grande mangiatore, era un cuoco.
Amava vedere gli altri mangiare quello che lui preparava. Inoltre in lui ho sempre trovato un interlocutore alla pari. Nonostante io sia non vedente, non ho mai avvertito qualcosa in lui che mi facesse sentire diverso. Dal primo momento in cui ci siamo incontrati all’hotel Carlton di Bologna e mi invitò a cena, ho sempre intrattenuto con lui un rapporto straordinariamente perfetto. Un rapporto del tutto naturale.
Mentre, al contrario, non era naturale il suo rapporto col mondo del teatro. E anche coi singoli attori. Il modo col quale ha concepito la Lectura Dantis, per esempio, o il tentativo di applicare la phonè: io lo seguivo su queste cose ed ero incuriosito e stimolato, pur essendo impegnato nella politica. E avvertii in lui diverse volte un senso di insofferenza nei confronti del teatro militante.
È vero, era insofferente. Tante volte lo ha anche manifestato. Per esempio, è l’unico attore che non ha mai nascosto un suo particolare vizio. Quello di farsi montare dietro la quinta centrale del palcoscenico un televisore e una radio perché potesse seguire i risultati delle partite quando non era in scena durante i Matinée della domenica.
Mi preme molto riuscire a far emergere l’esigenza di riprendere la sua stessa capacità generalizzante. Perché c’è una caduta di tensione impressionante e la phonè può diventare una chiave di interpretazione ben più ampia, tenendo conto di quanto si sono affinati oggi gli strumenti.
Basti vedere la differenza tra Carmelo e gli altri grandi protagonisti di allora, Eduardo De Filippo per esempio. Quando parlai con Eduardo e gli spiegai la fonica, lui non capiva e mi chiese che bisogno ci fosse di spendere così tanto per una cosa del genere. Io ho un amico a Napoli, diceva, e quando ho bisogno chiedo a lui di mandarmi il microfono e la cassa. Eduardo diceva: se il teatro è buono mi sentiranno tutti, se non è buono qualcuno mi sentirà bene e qualcun altro meno.
Eduardo non capiva che per Carmelo il problema della phonè non era di interpretazione del testo, bensì di superamento del testo, di riscrittura, di ricreatività del testo. Non a caso io per nessuno userei la definizione che riservo per Carmelo: l’attore creativo. L’unico attore creativo del nostro tempo. Non ce ne sono altri.
Tu apprezzerai sicuramente questa inclinazione alla ricreazione del testo attraverso la musicalità. Quello a cui sto lavorando adesso è proprio questo: dimostrare che Carmelo non era una voce recitante ma era una voce concertante. Cantava e suonava.
Mi viene in mente una definizione di Muccio sulla musica. Il godimento delle passioni in se stesse. Carmelo cerca il godimento, la sua proiezione artistica è proprio il godimento in se stesso di quella che è la passione teatrale.
È questa la sua grandezza, la sua forza. E si vede oggi più di allora.
Infatti c’erano diversi amici che allora non lo amavano. Anzi, erano stupiti che io gli dessi così tanta considerazione, anche perché io sono piuttosto selettivo. Non è facile che dia così tanta importanza a qualcuno.
Se la Puglia riuscisse davvero a fare qualcosa per dare a Carmelo una continuità sarebbe magnifico. Il ruolo che può avere non è tanto quello di madre di Carmelo ma quello di riconoscimento universale. Dalla Puglia, Carmelo può essere ricondotto nel cuore dell’attenzione internazionale.
Sono d’accordo. È proprio questo il mio scopo.
Rino Maenza e Claudio Signorile