L’Acrobata, storia di una famiglia in equilibrio sulla corda di un secolo segnato dai totalitarismi | Giornale dello Spettacolo
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L’Acrobata, storia di una famiglia in equilibrio sulla corda di un secolo segnato dai totalitarismi

Lo spettacolo di Laura Forti per la regia di Elio De Capitani è in scena fino al 4 febbraio al Teatro Dell'Elfo di Milano

L’Acrobata, storia di una famiglia in equilibrio sulla corda di un secolo segnato dai totalitarismi
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22 Gennaio 2018 - 18.00


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di Chiara D’Ambros 

La scena è essenziale, tre grandi pareti bianche disposte a semicerchio. Ma l’apparente staticità dello spazio scenico si trasfigura sin da subito. Le pareti bianche diventano improvvisamente mare, diventano schermi su cui vengono proiettate grandi onde mentre la protagonista femminile interpretata da Cristina Crippa, figlia, madre di Pepo e nonna inizia il racconto, scritto da Laura Forti, è la storia della sua famiglia. Josè Valenzuela Levi, detto Pepo è suo cugino.

La nonna snocciola, scrivendoli al nipote, i ricordi di eventi che hanno segnato tre generazioni della sua famiglia, che fanno parte di quelle tre generazioni che hanno vissuto, subito, determinato la Storia di un intero secolo, il ‘900. 

Lo spettatore viene portato dentro le vicende assieme al riflusso dell’acqua e poi investito dalla spinta inarrestabile degli eventi che come onde si ripetono inesorabilmente, dispiegano e inghiottono ideali, travolgono vite.

I componenti della famiglia sono gli acrobati del e nel tempo, hanno attraversato tre totalitarismi: La Russia degli zar, il fascismo in Italia, la dittatura di Pinochet, in Cile.

Il primo acrobata è il bisnonno Juliusz interpretato da Elio de Capitani, che cura anche la regia dello spettacolo. Juliusz nel 1905, scappa dalla Russia Zarista con la moglie incinta, in quanto ‘ebreo russo socialista amico di Lenin’. Juliusz è una figura mastodontica che compare solo in video, sugli schermi, come un fantasma del passato che veglia sul presente, rimbalza da uno schermo all’altro avvolgendo e catturando l’attenzione del pubblico. 

Concreta in scena, acrobata alla ricerca di un equilibrio tra passato e presente, tra rimorsi e i segni del tempo, è la nonna. Da bambina, a seguito delle leggi raziali, le viene impedito di andare a scuola. Un giorno all’improvviso viene fatta uscire dalla classe, nessuno dei compagni disse una parola. Il padre chimico viene licenziato per lo stesso motivo. Sugli schermi si vedono le prime pagine dei giornali dell’epoca, testate ancora vive oggi, come il Corriere della Sera o la Stampa, che riportano l’annuncio di quelle leggi.

Immagini di prime pagine che in questi mesi sono ricomparse sui social di molti a seguito delle derive di destra che si stanno manifestando in Italia oggi, nel 2018, e a seguito di infauste battute di alcuni politici. 

E’ questo uno dei primi elementi a far sentire la necessità di questo spettacolo che spiega senza diventare didattico, alcuni passaggi storici facendoli uscire dalle pieghe del tempo e degli sconfitti, ma anche di quei vincitori che ancora oggi cercano di imporsi al mondo minando la democrazia.

Per sfuggire alla persecuzione fascista, la famiglia scappa in Cile inizia una nuova vita, che viene però di nuovo infranta dall’arrivo di una nuova dittatura, da una pagine buie della Storia dopo quelle della Seconda Guerra Mondiale. 

Il ritmo dapprima lento dello spettacolo, si fa incalzante con l’avvicendarsi degli eventi socio-politici cileni. Da spettatore in qualche momento, sentiresti la necessità di un respiro, di una pausa in più tanto è denso il contenuto , grande la portata di quanto è successo allora e sta succedendo ora in scena. Vorresti che la grande foto del generale Augusto Pinochet, giovane con gli occhiali scuri, apparsa sullo schermo centrale si fermasse più a lungo per darti la possibilità di guardare bene negli occhi questo “mostro” che già alla fine degli anni ’50, con González Videla aveva mostrato la sua attitudine dirigendo il campo di concentramento di Pisagua dove venivano rinchiusi gli oppositori politici.  Ma la storia procede inesorabile, non si può mettere in pausa.

Le immagini reali, i documenti d’epoca sono un personaggio che si rivela indispensabile accanto alla trasfigurazione teatrale della Storia. Un video, che vede la regia di Paolo Turro, racconta l’ascesa del primo presidente marxista eletto democraticamente in Sud America, Salvador Allende. Ne racconta l’operato, l’incremento del sistema pubblico, la nazionalizzazione delle industrie, la distribuzione delle terre ai contadini e anche il successivo sabotaggio della Cia con il conseguente impoverimento del Paese, il blocco delle merci che da inizio a un processo di diffamazione del suo governo.

La voce di Pinochet si impone sulla scena in uno dei momenti più toccanti, Si sente una sua telefonata con un altro generale, Patricio Carvajal, che otterrà poi il dicastero alla difesa del “governo” Pinochet che si impose in Cile dopo il Golpe. Ridono dicendo che si preoccuperanno di garantire l’incolumità di Allende durante il colpe di stato, espatriandolo, salvo poi precisare che l’aereo sul quale sarà trasportato cadrà. 

11 settembre 1973 il Golpe.

Documenti video dell’epoca scorrono sugli schermi e una voce fuori campo racconta cosa stava avvenendo: l’attacco a La Moneda, sede del parlamento, dove Allende morì, forse suicida, dopo un importante discorso alla radio.

Forze di terra aria e mare invadono Santiago, la capitale. La scena è vuota, nessuna fantasia può superare tale realtà, quel pezzo storia va vista nella sua essenziale verità.

La voce continua a narrare mentre compare una foto di Henry Kissinger, un uomo di origine ebrea tedesca, segretario di stato degli Usa dal ’73 al ’77, sotto al presidenza Nixon. Racconta che il Golpe cileno, pare sia stato appoggiato e sostenuto da una delle principali potenze mondiali per paura del ‘Sandwich Rosso’ come dichiarò lo stesso Nixon, insignito del Premio Nobel per la pace proprio nel 1973.

La presenza di queste immagini, dei video è stata una scelta registica che De Capitanti sostiene in quanto:

“È nostro compito “trasmettere”, come artisti, come teatro dell’Elfo che da sempre ha scelto di occuparsi di Storia recente. Quindi raccontare la Storia dando per scontato, come molto spesso si fa, non mi andava. Io volevo che lo spettacolo fosse in qualche modo autosufficiente, non volevo che chi guarda dovesse già sapere e questo non ha nulla a che fare con il teatro didascalico. Solo penso che bisogna approfittare di ogni occasione per approfondire il discorso. Sono convinto che si può fare arte anche restando semplici. Complessi nelle relazioni e nelle cose che racconti, ma ci vuole semplicità per colpire nel segno.”

Sarà forse per questo che anche chi scrive questo articolo non riesce a parlare dello spettacolo senza ripercorrere almeno in parte le vicende di quegli anni. E’ un’altra occasione. 

Dopo i video, lo spettatore viene ricondotto dentro la storia della famiglia attraverso la nonna che riprende il suo racconto.  Al tempo era professoressa di geologia in università. Al momento del Golpe ai trova in ateneo con altri docenti, molti dei quali ben presto vengono trovati e torturati. Le persone iniziano a sparire per quello che pensano. I garage prigione, le torture, gli aerei della morte, fatti che oggi si sanno ma in teatro, si incarnano negli attori che si fanno testimoni.

La nonna, allora ancora solo madre, come il bisnonno scappa da quel Cile devastato, in cui una generazione stava scomparendo, massacrata dalla dittatura.

Si rifugia in Svezia con il suo bambino Pepo, dove lavora, lavora e lavora per “sigillare i ricordi”. In Cile ha lasciato tutti, il padre che si suicida, una figlia ritardata abbandonata in istituto.

Pepo cresce e fa suoi gli ideali di giustizia respirati in famiglia e nel mondo con la fine della guerra in Vietnam, le lotte del Ché, Cuba, la liberazione del Nicaragua e una volta cresciuto e formatosi come combattente torna in Cile. La madre detesta il suo idealismo sa che le farà perdere ciò che di più prezioso ha al mondo, ma al contempo ne è fiera. Si chiede se è come una madre di un kamikaze che oggi combatte altre lotte.

Sarà proprio Pepo a capo della squadra dell’attentato a Pinochet, il 6 settembre 1986.  Falliscono. Poco dopo, in uno stesso giorno alcuni compagni dei suoi compagni vengono assassinati altri con lui incarcerati, torturati e uccisi. Notevole è l’interpretazione di Alessandro Bruni Ocaña, racconta la dinamica dell’attentato con una precisione e un ritmo che consentono allo spettatore di vede il film di quanto è successo. Come spiega De Capitani “il racconto dell’attentato , è astratto, è epico ma ho cercato in tutti i modi che sia una soggettiva emotiva, dove si saldano Brecht e Stanislavski. Non pensi al meccanismo del teatro perché accade. Questa capacità di indossatore di anime credo che sia una cosa contaminante per il pubblico.”

La leggerezza, attraverso la metafora dell’acrobata tenta di entrare e imporsi tra gli eventi della Storia che come macigni si sono succeduti schiacciando vite e ideali, possibilità di trasformazione, di un mondo diverso. 

La nonna alla fine è un’acrobata nella “perfetta casa svedese”, sospesa ad un benessere che non le restituirà suo figlio”.

Con le mail di racconto al nipote, gli consegna i ricordi, sebbene siano schiaffi, perché “cosa può essere una persona senza ricordi?”. 

Mentre il padre era combattente il figlio ora è un payaso, un pagliaccio. La lacrima non ce l’ha però sul viso ma nel cuore. Acrobata perché sospeso in aria, le radici strappate. Al nipote, interpretato dallo stesso Alessandro Bruni Ocaña, dell’acrobata rimane la precarietà, l’essere sospeso in un tempo senza padre, gli manca il coraggio necessario per elevarsi fino alla cima della piramide dei suoi compagni del circo.

Perché non riesce a trovare quel coraggio…perché? Perché i padri sono stati sconfitti e una generazione devastata? E nonni si sono rifugiati in eleganti case e benessere e hanno voluto proteggere i nipoti dopo aver visto morire i figli? I nipoti hanno perso il senso della lotta?

Come dice De capitani:

“In questo spettacolo c’è anche il riconoscimento della fase attuale attraverso il nipote che vive l’impossibilità di far parte di un grande sogno della Storia. Però questa è la sua di vita. Forse se avesse conosciuto il padre sarebbe andata diversamente.”

“Padre se tu mi fossi stato vicino forse ti assomiglierei, avrei i tuoi ideali, il tuo coraggio, invece ho scelto di esserti distante. Io non sono un acrobata , sono Toto il Payaso.’’ Conclude il figlio di Pepo, una battuta che parla di un’intera generazione.

Come dice De capitani: Saldare la Grande Storia alla vicenda privata è un compito, un compito che l’arte può svolgere. 

Scrivere de L’acrobata porta a parlare di arte e di storia. Questo spettacolo parla di Storia recente, chi guarda fa parte di quella Storia, questo spettacolo ti ricorda che ne fai parte. 

Lo spettacolo parla di generazioni e mette in dialogo le generazioni anche oltre se stesso. 

Chi scrive è coetanea del nipote e non può che essere toccata dalla scelta del nipote di fare il circo, il payasso a seguito di un grande vuoto di una generazione che ha lottato, che è arrivata a importanti conquiste sociali ma che non è riuscita a sovvertire profondamente l’ordine. 

Chi scrive non poteva non cogliere l’occasione di chiedere a De Capitani quasi coetaneo di Pepo: Che percezione hai del trasmettere quel passato rivoluzionario, oggi?

“Il Golpe Cileno è riuscito a cancellare una generazione. Noi in Italia abbiamo non abbiamo avuto quello ma gli anni di piombo, gli attentati, i depistaggi. Anche la nostra generazione è stata massacrata. Il terreno che è stato lasciato, è stato lasciato in modo da indurre a lasciare o a non avere speranza. Quindi bisogna pensare che queste cose accadono frequentemente nella Storia ma si deve sperare che poi siano fasi che cambiano improvvisamente. Che ci siano delle nuove fasi in cui ci si aggrega. Non è una critica al virtuale. Io lo capisco che la tua generazione faccia fatica a trovare gli altri perché è una generazione completamente assorbita dalle merci. A diversi livelli sociali da quelli più ignoranti a quelli più alti, la vita è fatta di oggetti, più che da relazioni è evidente. 

Io combatto una battaglia per una riaggregazione fisica tra le persone. Quindi è un modo anche per esercitare e vivere l’amicizia in un altro modo. E’ pre politico il discorso. Prima di avere un’aggregazione politica, tu devi avere una aggregazione fisica che sia diversa da quella di oggi, e il teatro è una delle forme in cui accade questo. Io con tutta la mia forza cerco di usare il mio corpo per trasmettere che c’è un’altra vita possibile e questa vita è fatta di curiosità di momenti fisici con gli altri. 

L’acrobata per noi è importante perché realizza il compito del teatro. Per me il teatro deve anche manifestare la forza di se stesso. Uno deve uscire da lì e dire: porca miseria il teatro, che effetto mi fa il teatro. E io ci credo.”

Succede questo, uscendo da teatro ti porti uno spazio e un tempo che hai vissuto, ti entra nel corpo di spettatore, di essere umano, di soggetto che inevitabilmente vive in una polis, di soggetto politico.

Sì, L’acrobata è uno spettacolo importante.

Rimarrà in scena al Teatro dell’Elfo ancora fino al 4 febbraio.

 

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