“Mia Moglie” e “Phica.eu” sono i recenti casi diffusosi online che obbligano l’opinione pubblica, la politica e i sistemi giuridici ad affrontare una ferita aperta. Pubblicare e far circolare foto online con volti e corpi femminili, con tanto di commenti a dir poco spiacevoli, è innanzitutto un fatto giuridico. Possono esserci accuse di “diffamazione aggravata dal mezzo di pubblicità” (art. 595, comma 3 c.p.) quando vengono discussi in un contesto diffamatorio –come questo– il viso, il nome e la privacy di una persona, imputabile anche ad un uso improprio dei social media. Un caso che vede anche la violazione della privacy, considerata la pubblicazione di foto e dati personali senza il consenso.
Leggi che intervengano tempestivamente sono necessarie per bloccare l’evoluzione di questo fenomeno –o, idealmente, impedirne la nascita– stavolta emerso con una veste diversa, con gruppi di uomini che online hanno reso possibile qualcosa di inimmaginabile. “Mia Moglie” contava trentadue mila uomini. Trentadue mila persone, i possibili abitanti di una città media in Italia, sei volte tanto i piccoli comuni; come se agire in branco garantisse più sicurezza, o meglio più forza, come se si sentissero più legittimati e in un certo senso autorizzati. Si inizia così a parlare di “stupro virtuale” che, se per qualche apocalittico è solo l’ennesimo dramma provocato dalle tecnologie, è in realtà il riflesso di una società patriarcale che accetta –terribilmente– uno scenario alquanto surreale. Su questo già ci avvertiva nel 2022 la studiosa Lilia Giugni che nel suo libro “La rete non ci salverà: perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere)” rivela discriminazioni e violenze di genere in rete, talvolta invisibili e poco discusse: “ingiustizie algoritmiche”, l’indissolubile legame tra capitalismo e patriarcato, ma anche altro come pornografia, sessismo online, bias dell’intelligenza artificiale. Un humus che mette in luce il mondo online e che porta la studiosa a ipotizzare un “patriarcato 4.0”.
La società ha trovato nuovi modi per portare avanti una tradizione vecchia ormai da secoli. Si sa, il nostro popolo ama essere tradizionalista. Nonostante l’emancipazione femminile verificatisi negli ultimi decenni, oggi siamo ancora di fronte al classico e conosciuto patriarcato –tra le strade delle città e le mura domestiche– e poi, non tanto diverso, quello più nascosto, talvolta silenzioso, dietro lo schermo. Due facce della stessa medaglia. E quello in rete è il “patriarcato 4.0” che ha conosciuto, studiato, analizzato le nuove forme digitali, ne ha tratto profitto e si è conformato ad esse. E così le donne sono viste, giudicate e derise dagli occhi della rete; diventano oggetti senza identità, merci da vendere in un mercato virtuale, vittime di una crudele e disumana spettacolarizzazione.
“Mia Moglie” ha attirato l’attenzione di altri gruppi e siti web altrettanto preoccupanti e penalmente perseguibili come “Phica.eu”, recentemente chiuso in seguito alle segnalazioni alla Polizia postale. E anche molte politiche sono finite in questo teatro dell’assurdo come la sindaca di Firenze Sara Funaro, Elly Schlein, la segretaria di Noi moderati Mara Carfagna, Chiara Appendino, le ministre Anna Maria Bernini e Daniela Santanchè. E a questa lista, purtroppo, se ne potrebbero aggiungere altre.
Il prof. Tiziano Bonini, docente di sociologia dei media digitali all’Università di Siena, sostiene che questo caso sia l’ennesimo esempio di come i valori sociali plasmino i social media e non viceversa, come di solito siamo portati a pensare: “Patriarcato, sessismo e ricerca narcisistica dell’engagement sono tutti “valori” condivisi da ancora ampi settori della società che si riverberano, trovando uno strumento di amplificazione, nei social media. Il gruppo Facebook “Mia Moglie” è lo specchio di un pezzo di società maschile ancora egemonico, che sfrutta i meccanismi algoritmici di visibilità della piattaforma per aumentare la propria popolarità”.
Le soluzioni, prosegue Bonini, “non sono solo tecnologiche: non basta moderare o censurare questi contenuti, imponendo regole di moderazione dei contenuti condivise per tutte le piattaforme, che dovrebbero essere trattate come degli editori, non solo come fornitori di servizi neutrali, ma serve soprattutto cambiare la cultura maschile che alimenta questi fenomeni. Il problema è prima culturale che tecnologico. Come sostiene Francesco Striano nel suo libro “Violenza virtuale”, che ho inserito tra i saggi in lettura per tutti i miei studenti, dobbiamo capire che questa violenza che affiora nei social è violenza reale ed è radicata nella cultura profondamente misogina e patriarcale delle nostre società occidentali”.
Un caso discusso da tutti –almeno questo– ma viene da chiedersi se dovessimo davvero toccare il fondo per far emergere una questione così grave e urgente. Ed ecco perché non è problema solo digitale; affonda le sue radici in una società che necessita maggiore educazione e sensibilizzazione sul rispetto della donna che, ancora oggi, si ritrova a fare i conti con un sistema maschilista e misogino. Parlare di “patriarcato 4.0” porta ad interrogarsi sulla nostra cultura, ancora affezionata ad antiche visioni che, sebbene siano in parte superate grazie a lotte sociali e resistenze dal basso, alcune volte ritornano.