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Hiroshima, 80 anni dopo: la ferita che non si rimargina

La voglia di dimenticare è comprensibile perché ogni ricordo è un pugno nello stomaco. Ma la rimozione è il fertilizzante dell’indifferenza e più la bomba diventa lontana nella nostra percezione, più diventa pensabile come strumento politico o militare

Hiroshima, 80 anni dopo: la ferita che non si rimargina
Gli studenti di Hiroshima dipingono l'orrore della bomba atomica (immagine da Abbanews)
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Marcello Cecconi Modifica articolo

6 Agosto 2025 - 10.02 Culture


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“Hiroshima è come una ferita aperta su tutto il genere umano, e al pari di tutte le ferite, anche questa pone due possibili sviluppi: la speranza di guarigione da un lato e il pericolo di un’infezione fatale dall’altro”. Queste parole le scriveva il premio Nobel giapponese Kenzaburō Ōe in Note di Hiroshima, a distanza di vent’anni dalle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Oggi, nell’agosto del 2025, ottant’anni dopo quella doppia fiammata che cancellò due città e oltre duecentomila vite, il bilancio è amaro: l’infezione fatale non si è ancora consumata, ma la guarigione è lontanissima.

Perché se la Seconda guerra mondiale si è conclusa con quelle due fiammate, la logica che portò a quella scelta non si è mai spenta. La minaccia atomica vive tra noi, travestita da equilibrio di deterrenza o da scudo strategico. Le parole di Vladimir Putin quando evoca risposte nucleari come se fossero opzioni tattiche, le mosse di Donald Trump quando mette in allerta i sottomarini nucleari statunitensi, i sospetti su un Iran che insegue il sogno atomico sotto il manto di una teocrazia e le armi nucleari in mano a una cricca di rabbiosi e disumani israeliani che perseguono quotidianamente atti genocidari, ci ricordano che l’infezione è cronica.

Eppure, Hiroshima e Nagasaki sembrano per molti relegate a un’epoca in bianco e nero, lontana, quasi estranea. Nei talk show se ne parla poco, a scuola il tema si sfiora, e nelle nuove generazioni la consapevolezza è spesso frammentaria. Sono pochi i millennial, meno gli appartenenti alle generazioni Z e Alpha, che conoscono la cronologia esatta di quei giorni d’agosto 1945. Quanti sanno che la bomba di Hiroshima fu all’uranio (Little Boy) e quella di Nagasaki al plutonio (Fat Man)? O che in molti morirono nei mesi successivi per le radiazioni, senza neppure un nome su una tomba?

In Giappone, dove dimenticare potrebbe rivelarsi una scelta immorale, sono stati i sopravvissuti, gli hibakusha, a imporre la memoria della Bomba. Ci sono scuole come la Motomachi High School di Hiroshima dove, dal 2007, i suoi studenti d’arte intervistano i sopravvissuti trasformando le loro strazianti testimonianze in dipinti. Nel paese del Sol Levante, la memoria ha trovato spazio anche nei linguaggi popolari. Il manga Hadashi no Gen (Gen dai piedi scalzi), pubblicato a partire dal 1973 da Keiji Nakazawa, ha portato il trauma di Hiroshima ai ragazzi, raccontandolo attraverso gli occhi di un bambino sopravvissuto. È stato tradotto in molte lingue, incluso l’italiano, e per anni ha rappresentato uno dei pochi ponti narrativi tra storia e generazioni.

Ma non può bastare un fumetto, per quanto potente, a custodire una memoria collettiva di fronte a una minaccia che è ancora presente. Perciò serve una cultura della memoria attiva, che non si limiti a commemorare, ma che leghi i fatti del 1945 ai rischi del 2025. La voglia di dimenticare è comprensibile perché Hiroshima è un trauma che scotta, e ogni ricordo è un pugno nello stomaco. Ma la rimozione è il fertilizzante dell’indifferenza e più la bomba diventa lontana nella nostra percezione, più diventa pensabile come strumento politico o militare.

Ōe parlava di guarigione come possibilità e, ottant’anni dopo, quella possibilità rischia di sbriciolarsi tra le nostre mani. Perché ogni volta che un leader pronuncia la parola “nucleare” come se fosse una pedina sulla scacchiera geopolitica, la ferita di Hiroshima si riapre. Forse la vera domanda da porre non è se ricordiamo che cosa è accaduto ad Hiroshima, ma se comprendiamo davvero cosa significherebbe riviverlo oggi, ottant’anni dopo. Se la risposta è no, allora la ferita non guarirà mai.

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