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La Memoria della Vite: un viaggio dentro l’anima

Massimo Granchi nel suo nuovo romanzo scandaglia le voci interiori dei suoi personaggi e parla del dialogo possibile tra generazioni attraverso la cura

La Memoria della Vite: un viaggio dentro l’anima
Le memoria della vite, Massimo Granchi
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16 Luglio 2025 - 18.10 Culture


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di Luisa Marini

Il romanzo La memoria della vite di Massimo Granchi si sviluppa in tre parti, che sembrano riflettere le tappe fondamentali dell’esistenza: la spensieratezza della giovinezza, anche ritrovata da chi è nella mezza età; un evento traumatico che crea una cesura e fa acquisire bruscamente consapevolezza della vita adulta; infine, un “fare pace” con il passato che permette di comprenderlo e di riconoscere, attraverso di esso, le proprie radici e il senso delle scelte future

La storia, che passa da colori gioiosi e testimonianze di amore per la vita (Procida è luogo-personaggio) a un’assenza in bianco e nero, entra sottopelle ed esplora l’indicibile dei sentimenti. L’autore si interroga sulla capacità di trasmettere queste emozioni attraverso la scrittura, riuscendovi grazie a una prosa delicata e attenta all’umanità dei personaggi. Nelle tre fasi del libro, sono le voci alternate dei tre personaggi principali a sostenere la narrazione: Gabriel, amico fraterno di origini straniere di Sole, a sua volta legatissima anche alla madre Liliana. I loro monologhi interiori ci fanno entrare nelle singole psicologie e aderire ai loro punti di vista.

Sole, nomen omen, è una ragazzina vivace e vitale, che illumina la vita degli altri e che, quando si spegne, crea vicinanza tra chi rimane. Vive in simbiosi col suo amico Gabriel, un ragazzo maturo, quasi già adulto, che ha in sé una ribellione, normale per la sua età, ma sempre trattenuta. Quasi che Granchi voglia dirci che non tutti i ragazzi di oggi vivono un disagio che esprimono nella violenza, ma che una reazione positiva al proprio vissuto sia possibile. La stessa aspirazione di Sole, sulla base del proprio talento, naturale e riconosciuto, è quella di impiegarsi nel sociale, di portare sollievo agli altri. Gabriel è l’unico personaggio maschile che dialoga davvero con i personaggi femminili del romanzo – compresa sua madre – e instaura con essi un rapporto molto profondo; il suo alter ego è l’uomo adulto che scappa dalle proprie responsabilità: direttamente suo padre, pur con motivazioni gravi che vengono sciolte sul finale, e indirettamente il padre della sua amica.

La voce di Liliana fa da ponte: è quella di una donna e madre generosa che, dopo un picco di felicità rappresentato dal ritorno ai luoghi e alle amicizie della sua infanzia, improvvisamente vede la sua vita deflagrare e farle perdere le certezze costruite fino a quel momento o, meglio, vederle con altri occhi: dal rapporto col marito, che in realtà è stato sempre distante, al suo lavoro dedicato alla cura degli altri (che descrive come “il mio freudiano bisogno di accudimento”), intrapreso per affrancarsi dalle proprie origini e che alla fine comprende sia stato anche un modo per distrarsi da sé stessa. Liliana, investita da una sofferenza troppo grande, riflette su di sé e si mette in discussione, e l’esaurimento la fa diventare infine cinica, insofferente, ma sarà proprio Gabriel a sostenerla nel suo cambiamento, desiderato da troppo tempo e infine obbligato, per non soccombere. Nel libro spiccano, alla fine, le due figure di Liliana e di Gabriel, che condividono profondamente la loro grande perdita.

Intorno a loro, una coralità di personaggi, tra Roma e Procida: la famiglia di Gabriel, la mamma e il fratello minore, e un padre assente che si fa ritrovare infine dai figli; la famiglia di Sole e Liliana, marito e figlio, opposti e complementari alla parte femminile; gli abitanti del condominio; l’amica del cuore di Liliana, Celeste, e sua figlia Margherita, che vivono sull’isola. Un’isola che è raffigurazione dell’Eden perduto, l’Itaca di Liliana che condivide con Sole e Gabriel.

Lo scrittore mette in scena una dicotomia tra giovani e adulti e tra maschile e femminile.  Dice Sole della sua famiglia: “Pensavo che anche io e mia madre, da una parte, mio fratello e mio padre, dall’altra, appartenessimo a due rami diversi dello stesso albero” … “Io e lei, energiche e passionali, … Lui e l’altro, pigri e abitudinari… Che banalità! Che noia, ancora, questi uomini. Che amore incondizionato, però. Vero e assoluto”. E ancora, allargando la riflessione: “Noi due, povere extraterrestri stralunate, piene di attenzioni da dare, riproduttrici di sessismo per troppa tenerezza, consegnato ad accumulatori seriali inconsapevoli di tanta generosità, la stessa che avrebbero ricercato per abitudine, compreso mio padre, ogni giorno, in tutte le donne della loro vita, presenti e future.”

L’autore adotta uno sguardo dall’interno, sceglie di non descrivere esteriormente le situazioni ma lo fa sempre attraverso le voci dei suoi personaggi: voci che riconosciamo come plausibili, che potrebbero essere le nostre, ci avvicinano al loro vissuto e ci coinvolgono fino alla fine del romanzo.

Massimo Granchi si distingue per una sensibilità che attraversa la sua scrittura attenta ed empatica, e che gli permette di passare con naturalezza dalle voci femminili a quella maschile del ragazzo, carica anch’essa di sfumature femminili per la capacità introspettiva e l’attenzione emotiva ai propri vissuti.

Un altro merito dello scrittore è quello di dare attenzione al valore di sentimenti quasi démodé, quali la gentilezza, il rispetto, anche tra etnie diverse, l’attenzione umana, in particolare verso chi soffre di malattia o è solo anziano. Il libro, del resto, ruota intorno al concetto di cura, per sé stessi e verso gli altri.

“Non possiamo cambiare gli eventi. Possiamo decidere come viverli” dice Liliana a Gabriel in uno dei loro dialoghi verso la fine del libro. Penso sia questo il merito di questo romanzo: farci riflettere sulla nostra maniera di reagire agli accadimenti della vita, e nei rapporti con gli altri esseri umani, con le scelte che possiamo, o a volte dobbiamo, fare.

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