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L’Onu ha ottanta anni e li dimostra tutti

Per molti governi, da Mosca a Budapest, da Ankara a Washington, passando per Gerusalemme, le politiche internazionali sono tornate a essere questione di muscoli più che di parole

L’Onu ha ottanta anni e li dimostra tutti
Il Palazzo di Vetro a New York sede dell’Onu
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25 Giugno 2025 - 15.14 Culture


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di Marcello Cecconi

A ottant’anni di distanza dalla nascita dello Statuto delle nazioni Unite, la grande speranza di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” si è logorata.  Il Palazzo di Vetro a New York, simbolo del multilateralismo, oggi appare sempre più opaco. Paralizzato dal diritto di veto, oscurato dai nazionalismi e aggirato dalle superpotenze. L’Onu, attraversata da una crisi di legittimità e di funzione, resta comunque lì. Segno che nonostante tutto, il bisogno di un luogo del dialogo globale non è mai scomparso.

Era precisamente il 26 giugno del 1945, quando ancora si contavano i morti della Seconda guerra mondiale e a San Francisco veniva firmato l’accordo istitutivo delle Nazioni Unite. L’Onu avrebbe preso ufficialmente il via a ottobre in un mondo stremato, diviso, inorridito dalla bomba atomica sganciata due mesi prima sul Giappone, eppure animato da quella grande speranza di usare la diplomazia in luogo delle armi.

L’Onu nasceva, dunque, in un tempo segnato dalla paura. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, alleati nella sconfitta del nazismo, si preparavano già allo scontro ideologico che avrebbe spaccato il mondo in due blocchi. La formula del Consiglio di Sicurezza prevedeva che i cinque membri permanenti Usa, Urss, Cina, Regno Unito e Francia fossero dotati di diritto di veto. Questo fu un compromesso necessario ma già nei primi decenni appariva chiaro che quel meccanismo avrebbe funzionato solo fino a un certo punto. Simbolica, in tal senso, la celebre “scarpa di Krusciov”, sbattuta sul tavolo nel 1960 durante un’assemblea Onu, un gesto teatrale, ma che riassumeva bene le tensioni di un’organizzazione tanto solenne quanto politicizzata.

Con il crollo del Muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, l’Onu sembrava pronta a rinascere. L’illusione del “nuovo ordine mondiale” aveva fatto balenare l’idea che finalmente l’organizzazione potesse funzionare come previsto. In realtà, il mondo si frammentava sempre più e guerre civili, pulizie etniche, terrorismo e crisi regionali dimostravano che il pericolo non era più tra i grandi Stai, ma dentro i confini degli stessi.

L’Onu, sebbene presente sul campo con missioni di peacekeeping, si è mostrata spesso impotente. Ruanda, Srebrenica, Iraq, Siria, Gaza, Ucraina e, ultimamente, Iran hanno rappresentato e rappresentano le gravi crisi con risposte deboli o inesistenti. Il meccanismo del veto, pensato per evitare conflitti tra potenze, era diventato il principale ostacolo a qualsiasi risoluzione incisiva.

Negli ultimi due decenni, alla crisi geopolitica si è aggiunta quella politica. L’avanzata del populismo sovranista e la crisi della democrazia rappresentativa hanno minato la fiducia nelle istituzioni internazionali. L’Onu è stata accusata di essere inefficace, costosa, burocratica, inutile. Per molti governi, da Mosca a Budapest, da Ankara a Washington, passando per Gerusalemme, le politiche internazionali sono tornate a essere questione di muscoli più che di parole.

Emblematica la posizione di Donald Trump, che durante la sua presidenza non ha mai nascosto il fastidio verso l’Onu, vista come un freno all’“America First”. L’ultimo Trump, quello del Maga (Make America Great Again) e tornato sulla scena con l’aria di chi vuole riscrivere le regole del mondo, non promette nulla di buono per il futuro dell’organizzazione. Il rischio è che il Palazzo di Vetro diventi solo un involucro vuoto, buono per passerelle politiche o per commemorazioni, ma irrilevante nelle decisioni vere.

Eppure, nel corso della sua storia, l’Onu ha potuto giocare un ruolo chiave in numerose aree. In ambito di peacekeeping, ha condotto oltre 70 missioni per stabilizzare regioni in conflitto, facilitare transizioni politiche e proteggere civili. Alcuni esempi emblematici includono le missioni in Cambogia, Namibia, Mozambico e Timor Est.

Anche sul piano dei diritti umani l’Onu, attraverso l’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 ha messo in atto un sistema internazionale di tutela delle libertà fondamentali. Nello stesso anno ha promosso la Convenzione sul genocidio e, successivamente la Convenzione sui diritti dell’infanzia e la Convenzione contro la tortura, che godono ancora di grande prestigio. In campo sanitario, l’Organizzazione Mondiale della Sanità(Oms), agenzia dell’Onu, ha guidato campagne come l’eradicazione del vaiolo, la lotta contro l’Hiv/Aids e la malaria e, con molte più controversie, quella per contenere il Covid-19.

Insomma, l’Onu esiste e nonostante le sue lentezze, resta l’unico spazio globale in cui 193 Stati siedono allo stesso tavolo. Ma per restare viva, e utile, ha bisogno di una riforma profonda e coraggiosa e non solo nei meccanismi di voto ma, soprattutto, nello spirito che la anima. L’Onu, nata con l’ambizione di sostituire il linguaggio dei carri armati con quello della diplomazia sembra aver abdicato a questa speranza. Il rischio che corriamo non è solo l’inutilità dell’organizzazione ma la sua scomparsa silenziosa, mentre le democrazie si ripiegano e le autocrazie si rafforzano.

L’alternativa alla diplomazia l’abbiamo già conosciuta, e non ci è piaciuta.

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