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Watergate e oltre: il mitico giornalismo d’inchiesta e le difficoltà dell’oggi

Come due coraggiosi giornalisti del Washington Post costrinsero un Presidente statunitense alle dimissioni. Da allora molte cose sono cambiate: è sempre più difficile raccontare i fatti tra guerre e governi autoritari. Oggi tra propaganda, sorveglianza e censura, il giornalismo fatica a tenere accesa la luce sulla realtà.

Watergate e oltre: il mitico giornalismo d’inchiesta e le difficoltà dell’oggi
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Francesca Anichini Modifica articolo

21 Giugno 2025 - 15.42 Culture


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di Francesca Anichini

Il caso Watergate resta uno dei momenti più alti della storia del giornalismo: un esempio scolpito nella memoria di come un’inchiesta giornalistica possa cambiare il corso della politica e della storia. Era il 1972 quando Bob Woodward e Carl Bernstein due giornalisti del Washington Post, con determinazione e rigore, portarono alla luce uno scandalo che avrebbe condotto alle dimissioni del presidente Richard Nixon. Il giornalismo d’inchiesta americano, in quell’epoca, mostrò tutta la sua forza segnando l’apice della fiducia nell’informazione indipendente e nel ruolo della stampa: indipendenza, verifica dei fatti e un’incrollabile fede nel diritto all’informazione.

Oggi, quello stesso modello fatica a sopravvivere sotto la pressione di governi più autoritari, di tecnologie invasive e di guerre che non vogliono testimoni. O comunque che vengano raccontate dalle fonti uffici dei paesi belligeranti. In un contesto internazionale sempre più complesso, segnato da disinformazione, controllo politico e guerra dell’informazione, il giornalismo d’inchiesta incontra sempre maggiori ostacoli. Dagli eventi drammatici in Medio Oriente alla guerra in Ucraina, passando per la crisi dei migranti sono cartine di tornasole che dimostrano come la libera stampa non piaccia ai regimi autoritari.

Raccontare cosa succede davvero nei territori sotto occupazione è diventato pericoloso. Il giornalismo d’inchiesta è essenziale per documentare scenari di crisi spesso dimenticati o distorti dalla propaganda. Tra rischi, restrizioni e minacce, i reporter sul campo sono gli occhi del mondo su tragedie e resistenze che altrimenti resterebbero invisibili. I giornalisti che vivono nei paesi colpiti sono spesso le uniche voci sul campo, esposte a enormi rischi e con risorse limitate. Le agenzie internazionali faticano ad accedere ai luoghi chiave, non è più possibile verificare, osservare, entrare dentro le pieghe della realtà con i propri occhi. L’inchiesta, senza accesso e senza fonti dirette, rischia di ridursi a un’eco lontana. Le televisioni tentano di salvarsi l’anima con immagini di missili che solcano il cielo o con repertori abusarti sulla strage di Gaza.

A queste difficoltà si aggiunge la crescente perdita di credito e d’autorevolezza dell’informazione professionale, in un’epoca dominata dai social media, dove l’emozione spesso vince sull’analisi e la velocità sulla verifica. Il risultato è un ecosistema informativo in cui il giornalismo d’inchiesta fatica a trovare spazio e fiducia, pur rimanendo una delle poche vie per mantenere viva la democrazia.

Il paradosso è che oggi abbiamo più strumenti tecnologici che mai per documentare, ma meno libertà per usarli. Invece di essere alleati del giornalismo, i nuovi media e le tecnologie digitali sono spesso strumenti di controllo, manipolazione e repressione. Il giornalismo d’inchiesta, nato per smascherare il potere, si ritrova ora braccato da quel potere, spesso in silenzio e nell’indifferenza generale. Ed è sempre più difficile fare domande scomode ai leader di turno. Eppure, nonostante tutto, esistono ancora giornalisti coraggiosi che cercano la verità nei luoghi più oscuri. Il loro lavoro, come quello dei cronisti del Watergate cinquant’anni fa, è ancora una frontiera essenziale per l’etica pubblica.

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