di Lorenzo Lazzeri
Quattro uomini, una resa dei conti. Non con la giustizia, non con il destino, ma con sé stessi. Così si apre Maschi Veri, la nuova serie italiana in arrivo su Netflix dal 21 maggio. Diretta da Matteo Oleotto insieme a Letizia Lamartire è una produzione di Grøenlandia (gruppo Banijay), scritta da Furio Andreotti, Giulia Calenda e Ugo Ripamonti. Si tratta di una commedia in otto episodi adattata al format spagnolo Machos Alfa, considerata una delle produzioni più originali degli ultimi anni scritta dai fratelli Alberto e Laura Caballero, con Daniel Deorador e Araceli Álvarez de Sotomayor.
La serie originale, distribuita da Netflix dal 2022 e che ha rinnovato il contratto per una quarta stagione, ha conquistato il pubblico di lingua spagnola con la sua tagliente ironia sul maschio etero, bianco, cisgender e quarantenne, cresciuto nel grembo rassicurante di un patriarcato ormai in dissoluzione. Pedro, Raúl, Luis e Santi, i protagonisti spagnoli, incarnano un archetipo noto: l’uomo che non si accorge del proprio privilegio fino a quando il mondo non glielo toglie da sotto i piedi. Uomini che non sanno più come stare in coppia, né come restare da soli, smarriti in una contemporaneità che chiede loro di cambiare pelle, di ascoltare, di abbandonare quel “maschilismo inconsapevole” che era la normalità per la generazione cresciuta negli anni Ottanta.
In Italia i protagonisti saranno Mattia (Maurizio Lastrico), Massimo (Matteo Martari), Riccardo (Francesco Montanari) e Luigi (Pietro Sermonti). Uomini convinti di aver capito tutto: del sesso, del lavoro e delle donne, eppure non sanno davvero leggere il mondo. Si presentano con ironia – “siamo una specie in via di estinzione, come i panda” – e lo fanno con disarmante sicurezza. Ma quando l’equilibrio salta, il comico prende il sopravvento: ecco che sopraggiunge l’amico licenziato, la compagna che diventa influencer, il matrimonio stanco, la relazione aperta che destabilizza. Tratti che troviamo pure nel remake italiano.
Nel primo episodio della serie spagnola – e probabilmente anche in quello italiano – i quattro partecipano a un seminario terapeutico dove si trovano costretti a confessare la verità: “Sono un maschilista”, affermano in due. Il terzo più cautamente dichiara: “pare che io lo sia”. Il quarto, letteralmente, scappa. È la messa in scena tragicomica della vergogna di chi, per una vita, ha dato per scontato un mondo costruito a sua misura, una misura familiare, comoda e solo apparentemente neutra. La serie mostra gli effetti di quella che il sociologo Pierre Bourdieu ha definito violenza simbolica, ossia l’imposizione di significati e schemi di comportamento che, pur essendo prodotti storici e culturali, vengono percepiti come naturali, ovvi, inevitabili.
Il maschilismo dei personaggi non è rivendicato con orgoglio né contestato con convinzione ma è dato per assunto, sedimentato nel linguaggio, nei gesti, nei ruoli familiari e nella sessualità. La loro difficoltà ad ammettere la posizione di potere che ricoprono non nasce da una malizia deliberata, ma da una cecità appresa. La doxa patriarcale – per usare ancora le parole di Bourdieu – rappresenta la sfera del senso comune che non viene mai messa in discussione perché coincide con ciò che “è sempre stato così”. Ecco allora che la serie racconta le difficoltà di dialogo, non tanto con le donne quanto tra gli uomini. Il messaggio di fondo della serie è che anche gli uomini sono vittime – spesso inconsapevoli – di un sistema che li costringe a interpretare ruoli non scelti davvero, cucitigli da un ordine sociale invisibile quanto permeante.
La versione italiana, oltre al solido cast maschile, si arricchisce di presenze femminili di spessore: Thony, Sarah Felberbaum, Laura Adriani, Alice Lupparelli e Nicole Grimaudo. E se nella prima stagione della versione originale il focus è prevalentemente maschile, nella seconda le compagne, le ex e le colleghe diventano protagoniste a pieno titolo, restituendo bilanciamento alla narrazione. È dunque lecito aspettarsi un’evoluzione simile nella declinazione italiana, anche in virtù della sensibilità mostrata dal team creativo dietro la macchina da presa, già distintosi in opere dove il tratteggio relazionale e psicologico è stato sempre ben curato.
Il merito della serie, spagnola prima e italiana ora, non sta tanto nell’essere “rivoluzionaria” quanto nell’essere popolare e ironica. La “fallocrazia” descritta dalla serie è una struttura che danneggia le donne e una prigione per gli uomini; ciò viene raccontato senza moralismi o pretese pedagogiche, con un linguaggio quotidiano e accessibile che alterna gag, situazioni paradossali e rovesciamenti emotivi. “Maschi Veri” ossia, in conclusione, cosa resta del maschio quando gli viene tolto il retrivo copione e le sue armature culturali;