A Roma l’arte parla di Africa accanto al Bernini, di discriminazione e migranti

Le sculture di Wangechi Mutu inserite alla perfezione nella Galleria Borghese, la nigeriana Minne Atairu in una mostra sull’intelligenza artificiale al Pastificio Cerere, Adrian Paci in zona vaticana

A Roma l’arte parla di Africa accanto al Bernini, di discriminazione e migranti
Da sinistra, particolari di opere di Wangechi Mutu alla Galleria Borghese (foto Stefano Miliani); di Minne Atairu alla Fondazione Pastificio Cerere (foto ufficio stampa); di Adrian Paci in via della Conciliazione 5 a Città del Vaticano (foto ufficio stampa)
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Stefano Miliani Modifica articolo

28 Giugno 2025 - 22.55


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A Roma tre mostre o interventi espositivi un po’ speciali sanno parlare di culture africane, discriminazione e, si può dire?, di compassione, sanno dialogare con i luoghi con una gran cura dell’esito formale. Sono tre appuntamenti radicalmente diversi l’uno dall’altro eppure un filo li accomuna. Alla Galleria Borghese, alla Fondazione Pastificio Cerere nel quartiere di San Lorenzo, in via della Conciliazione a Città del Vaticano e in uno spazio monumentale ai suoi confini.

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Scultura dei “Poemi della terra nera” di Wangechi Mutu alla Galleria Borghese. Foto fonte ufficio stampa

Il primo appuntamento è con le sculture della kenyota-nordamericana Wangechi Mutu nella sfarzosa Galleria Borghese, nei giardini (più un’appendice alla American Academy of Rome) inserite tra Bernini, Caravaggio, Lotto, Tiziano e marmi antichi sotto il titolo “Poemi della terra nera”: a cura di Cloé Perrone, il museo statale diretto da Francesca Cappelletti le espone fino al 14 settembre.
Due dee africane che sembrano baciarsi su un tavolo specchiante del ‘700 a pochi metri dal “Ratto di Proserpina” del Bernini fino a incontrare all’esterno nei giardini una ammaliante sirena e le spire enormi di un serpente in un cesto. Ci imbattiamo dunque in un’Africa possente che colloquia senza alcuna soggezione tra i marmi e i quadri collezionati dal Cardinal Scipione Borghese.

Scultura dei “Poemi della terra nera” di Wangechi Mutu alla Galleria Borghese. Foto Stefano Miliani

Wangechi Muti, nata a Nairobi nel 1972, artista del gruppo etnico dei kikuyu, lo stesso del romanziere e saggista recentemente scomparso Ngugi wa Thiong’o, si è trasferita a New York nl 1990. Lascia strabiliati con quanta naturalezza le sue sculture dall’esplicito timbro “afro” (se si può dire così) si inseriscono tra le sontuose decorazioni, i marmi, gli stucchi e i soffitti affrescati di Villa Borghese. Appaiono come creature mitiche, inquietanti, chissà se benevole o meno, ibride, echi di miti a un tempo antichi e a noi contemporanei. Sono pronte, come un’arcana figura femminile, a confrontarsi con l’amor sacro e profano raffigurati da Tiziano in un dialogo con quel capolavoro cinquecentesco senza alcuna forzatura.

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L’installazione “Grains of Word” della serie dei “Poemi della terra nera” di Wangechi Mutu alla Galleria Borghese. Foto fonte ufficio stampa

Né l’autrice trascura la storia: con foglie di tè e chicchi di caffè trascrive su un mosaico romano di cacce africane e giochi circensi il testo di “War” di Bob Marley, canzone ispirata al discorso all’Onu del 1963 dell’ultimo imperatore d’Etiopia Haile Selassie contro il colonialismo in Africa e le discriminazioni. Difficile leggere tutte le parole, eppure il contrasto tra le immagini celebrative degli antichi romani e i versi in forma di caffè è netto e una didascalia aiuta a capire. Infine: forse per riflesso condizionato guardando Wangechi Mutu viene da ripensare a Simone Leigh prima nera a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia e vincitrice del Leone d’oro nel 2022.

Particolare dell’installazione di Minne Atairu alla Fondazione Pastificio Cerere per la mostra del ciclo del premio “Re-Humanism”. Foto Stefano Miliani

Il secondo appuntamento è con le artiste e gli artisti radunati da Daniela Cotimbo per la quarta edizione del premio “Re-Humanism” alla Fondazione Pastificio Cerere nel quartiere di San Lorenzo fino al 30 luglio. Con il titolo “Timeline Shift” la mostra “indaga in forma critica il concetto di tempo”, spiega la nota stampa e, tra altre opere, si nota una sequenza di donne con acconciature afro scorre su due lati di un pannello elettronico. Sembrano foto, come spiega la curatrice sono invece immagini create, sotto il titolo “Da Braidr”, con applicazione dell’intelligenza artificiale creata appositamente dall’artista Minne Atairu, nigeriana che vive anche lei negli Stati Uniti. “Minne Atairu – racconta a globalist.it la curatrice – ha chiesto all’intelligenza artificiale una donna nera con le treccine e l’Ai non sapeva rispondere, allora ha creato una sua app per generare le immagini desiderate. Le nere con treccine bionde vengono discriminate e l’AI ha riportato la discriminazione: è una questione di dati”.
 “Il progetto si propone di fornire a parrucchiere e clienti strumenti capaci di ottimizzare scelte preliminari come la selezione dello stile – scrive Cotimbo nel libretto – . L’idea nasce dall’esperienza dell’artista nei saloni afro di Harlem, dove l’intreccio diventa rituale di cura, gesto politico, pratica estetica e risposta a una lunga storia di discriminazione”.

La scultura di Adrian Paci in via della Conciliazione 5 a Città del Vaticano per “No man is an island”. Foto Stefano Miliani

Il terzo appuntamento è con Adrian Paci: per le cure di Cristiana Perrella, interviene nel “progetto dedicato al tema della migrazione, del viaggio e dell’accoglienza” organizzato dal Dicastero per la cultura e l’educazione della Santa Sede per il Giubileo. L’artista di origine albanese e da decenni in Italia espone due opere. Nella sala priva di qualunque orpello affacciata in via Conciliazione 5, l’ampia strada che porta dritta a San Pietro, protetta dal vetro e visibile a chiunque ci passi davanti, Paci espone una scultura del 2001: il calco bianco di sé stesso mentre porta sulle spalle pezzi di un tetto, di una casa che non ha quindi, rimandando al Cristo che si fa carico delle sofferenze di tutti portando la croce e ai tanti migranti in cammino oggi nel nostro pianeta. 

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La video installazione di Adrian Paci “The bell tolls upon the waves” nel Complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia. Foto Stefano Miliani

L’altra opera conferma la sua profonda sensibilità e si vede nelle vicinissime Corsie Sistine del Complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia (della Asl di Roma 1), antico luogo per pellegrini e di cura fondato nell’VIII secolo, nella via parallela in Borgo Santo Spirito 1-2. Nel braccio sinistro di questi due saloni enormi, affrescati, con un ciborio del Palladio, Paci propone una video-installazione del 2024 con tre pannelli su una campana galleggiante nell’Adriatico dal titolo “The bell tolls upon the waves” (la campana suona sulle onde).
Prodotta dalla Fondazione Giorgio Pace di Termoli, in Molise, la campana del video si ispira a una vicenda del 1566, quando i turchi affondarono con una campana trafugata dal paese molisano saccheggiato, e si carica di rimandi all’Adriatico come luogo di passaggio, a violenze e speranze, alla spiritualità. In corso fino al 21 settembre, il doppio intervento di Paci si intitola “No man is an island”, nessun uomo è un’isola, concetto ripreso da una poesia del poeta secentesco inglese John Donne.

Per i biglietti alla Galleria Borghese prenotate tramite il sito ufficiale (evitate il bagarinaggio online): https://galleriaborghese.beniculturali.it/

Per la mostra alla Fondazione Pastificio Cerere (a ingresso gratuito): https://www.pastificiocerere.it/mostre-attivita/rehumanism-art-prize-4-timeline-shift/

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Per Adrian Paci, via della Conciliazione 5 si vede dalla strada, per l’installazione “The bell tolls upon the waves” bisogna informarsi sul sito del Dicastero per la cultura e l’educazione: https://www.dce.va/it/cultura/conciliazione-5.html

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