Dopo due anni di pandemia oggi il pensiero collettivo si focalizza, a ragione, sulla tragedia ucraina, sulla Russia di Putin che invade, bombarda e massacra civili. Ciononostante il 6 aprile 2009 resta una data impressa nella memoria e va ricordata: alle 3.32 di quella notte un terremoto che rappresentò l’apice di uno sciame sismico iniziato a dicembre distrusse L’Aquila e i borghi nella conca, uccise 309 persone, devastò vite e case.
Molte di quelle morti potevano essere evitate. A 13 anni di distanza è Claudia Pajewski a riflettere sul sisma e sulla ricostruzione: aquilana nata nel 1979, è una fotografa di gran talento e inventiva che si occupa di rock, teatro, campagne sociali, scenari urbani, cultura queer, lavora per agenzie di comunicazione, pubblicità, quotidiani e periodici.
Claudia Pajewski partecipa alla mostra “In Itinere” in corso fino al 12 giugno al museo Maxxi Aquila con un breve ciclo di scatti magnifici e di potente originalità sul Mammut dove le ossa sembrano pietre o sculture di Henry Moore mentre in sottofondo si sentono voci tra cui, in una saletta, quella di sua madre. Occorre dire che quelle ossa formano lo scheletro del pachiderma conservato nel Castello Spagnolo in ristrutturazione da quel fatidico 2009.
Fino al sisma il Mammut era un’icona per la città e faceva la felicità di migliaia di bambini, poi non lo hanno più visto perché è in una sala nel Castello in restauro: quell’enorme testimonianza da un’altra era è stata restaurata l’anno scorso, appartiene al Munda – Museo nazionale d’Abruzzo che alloggia nell’ex Mattatoio a Porta Rivera, ha commissionato l’eccellente progetto fotografico insieme al Maxxi e ha appena esposto il pachiderma in una serie di week end apprezzati molto dagli aquilani. Valga adesso dare la parola alla fotografa senza farla troppo lunga.
Partiamo dai giorni precedenti alla notte del 6 aprile 2009 quando le scosse duravano da tempo. Fu detto che non c’era da allarmarsi troppo. Dopo quanto è successo, lei oggi come giudica quella sottovalutazione? Cosa pensa, quale ricordo ha?
Il terremoto dell’Aquila resta l’esempio per antonomasia del fallimento della prevenzione. Sono passati tredici anni ma le responsabilità restano chiare, imputabili alla Commissione Grandi Rischi che rassicurò la popolazione negando il pericolo imminente. Al di là delle condanne e delle assoluzioni, queste responsabilità hanno nomi e cognomi che non dimentichiamo. Restano 309 morti e 1600 feriti, invitati a restare a casa tranquilli nonostante il grave sciame sismico in atto.
A distanza di tredici anni, come valuta lo stato di ricostruzione dell’Aquila, soprattutto nell’edilizia civile? E quella dei borghi circostanti?
Il cratere aquilano è stato commissariato per anni, la costruzione di nuovi quartieri nel 2009 è stata ritenuta prioritaria rispetto al recupero degli edifici preesistenti, con un enorme consumo di economie e territorio. Ancora oggi sono tanti i residenti nelle new towns in attesa di tornare nelle loro case. Dal mio punto di vista lo stato attuale è frutto di scelte miopi fatte tredici anni fa, ma siamo stati comunque più fortunati di altre zone del centro Italia colpite negli anni successivi. Sicuramente la legge Barca del 2012 (dell’allora ministro senza portafoglio Fabrizio Barca, ndr) è stata preziosa per la ricostruzione della città. Detto questo il ritardo a monte lo paghiamo ancora oggi e i borghi ne sono l’esempio più evidente.
A parere di chi scrive, nonostante i luoghi ancora chiusi e feriti, oltre al Munda aperto da fine 2015 all’ex Mattatoio il centro storico dell’Aquila oggi ha ripreso una certa vitalità culturale: per fare qualche esempio l’università e il Gran Sasso Science Institute funzionano, nel 2021 si è inaugurato il Maxxi Aquila, l’Istituzione Sinfonica Abruzzese e i Solisti Aquilani tengono concerti. Lei cosa ne dice?
Sono enti fondamentali capaci di posizionare L’Aquila in una rete scientifica, artistica e culturale di respiro internazionale. Dietro queste realtà lavorano a tempo pieno persone con alti profili professionali, progettano e realizzano con uno sguardo lungimirante sul domani nonostante le politiche locali risultino molto deboli in termini di visione a lungo termine. Non deve essere facile.
Secondo lei L’Aquila corre il rischio di vedere il centro storico diventare una bella vetrina per enti, turisti e la movida, ma svuotato dai suoi abitanti, come accade in altri centri storici?
Il terremoto è stato una disgrazia immensa, ma ha lasciato in dono una grande popolarità emotiva al territorio, farla svanire senza farne tesoro sarebbe imperdonabile. Il centro storico è un gioiello che si sta lentamente ripopolando, non vedo né la movida né il turismo come un qualcosa di negativo se accompagnati da una buona gestione. Il problema è anche dettato dal fatto che molte case ristrutturate non vengono date in affitto. Immacolate e vuote, in attesa di una rivalutazione immobiliare per la vendita. Sono case private ricostruite grazie ai fondi dello Stato ma chiuse a chiave sotto teca, che non aiutano né il mercato immobiliare né l’economia della città.
Per la mostra “In Itinere” al Maxxi Aquila lei ha fotografato il mammut restaurato dal sisma del 2009 e custodito nel Castello Spagnolo, chiuso per lavori. Cosa ha voluto raccontare cogliendo dettagli dello scheletro?
Sono stata una bambina incantata dal Mammut come tutti i bambini nati in questa città, di cui è simbolo indiscusso. Oggi il concetto di estinzione è un monito, un’urgenza, un presente ingombrante con cui dobbiamo necessariamente fare i conti, anche molto velocemente. Nel respiro del tempo profondo, caro alla geologia, un milione e trecentomila anni è un arco temporale molto breve. Sono partita da alcuni testi sull’argomento e interviste a divulgatori scientifici per trasformare il Mammut da simbolo di un passato lontanissimo ad animale totemico dell’Antropocene, superando le mie stesse resistenze cognitive (bias).
Lei è socia fondatrice dell’associazione Off Site Art: di cosa si tratta, quali scopi ha?
Con Off Site Art accompagniamo con interventi di arte pubblica la ricostruzione del centro storico della città. In partnership con la no-profit americana ArtBridge dal 2014 abbiamo installato più di ottanta opere d’arte stampate su enormi teli mesh, una galleria d’arte a cielo aperto sulle facciate dei palazzi in ricostruzione.
Di base prendiamo in prestito le tecniche del linguaggio pubblicitario per diffondere arte accessibile e gratuita per tuttə. L’idea è nata inizialmente per personalizzare le strade che avevano perso il loro nome e la loro identità dietro centinaia di teli bianchi di cantiere. Quest’anno con la collettiva “Meraviglioso reale” a cura di Camilla Carè uniamo nomi importanti della fotografia internazionale a temi sociali per difendere la destinazione d’uso di alcuni edifici. Lo abbiamo fatto con le opere di Honey & Prue in via Antinori, un sito che diventerà un centro culturale per la disabilità, e con le opere di Letizia Battaglia allestite sulla futura sede della Casa delle Donne, i cui lavori termineranno nel 2024.
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