A volte la realtà supera la fantasia: nell'hip hop italiano l'integrazione è un dato di fatto

Da almeno vent’anni, nelle periferie italiane, l’hip hop è un affare meticcio. E ora a Torino un gruppo di artisti ha voluto riunirsi per combattere la xenofobia.

A volte la realtà supera la fantasia: nell'hip hop italiano l'integrazione è un dato di fatto
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16 Ottobre 2017 - 13.45


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Torino. “Pino, posso farti una domanda? Chi è il tuo giocatore di basket preferito?”.
“Magic Johnson”.
“E il tuo attore preferito?”.
“Eddie Murphy”.
“E il tuo cantante preferito è Prince, vero? Sei un fan di Prince. E allora lo vedi, Pino: stai sempre a dire ‘negri qua, negri là’. Ma com’è che tutte le persone che ammiri sono nere”?
Così, nel suo secondo film (“Fa’ la cosa giusta”, del 1989), Spike Lee raccontava contraddizioni e tensioni razziali che nelle periferie newyorchesi andavano fermentando tra afroamericani, italoamericani, ispanici, asiatici. Trent’anni dopo, a ben vedere, quelle contraddizioni pare stiano traslocando integralmente nel Belpaese; perché, mentre il popolo del web – variamente accompagnato da intellettuali, politica e giornalisti – continua a darsele di santa ragione a proposito di migranti e migrazioni, da almeno un decennio la partita dell’integrazione si va giocando in modo molto più incisivo tra i banchi di scuola, nelle palestre o nei campi sportivi di periferia. E, da ultimo, anche sui palcoscenici e nei negozi di dischi.
Si chiama Ghali, al secolo Ghali Amdouni, il fenomeno discografico dell’estate appena trascorsa. Amdouni è un 24enne nato da genitori tunisini alla periferia occidentale di Milano: “figlio di una bidella, con papà in una cella”, per dirla con i versi di una delle sue canzoni più celebri; quasi a rimarcare il fatto che la strada – vera pietra angolare dell’epica hip hop – questo giovane di seconda generazione non l’ha mai vissuta da turista. E nonostante ciò, nelle periferie cantate da Amdouni gli adolescenti italiani hanno finito per identificarsi come mai era accaduto di recente: perché, più che da gang armate e droghe pesanti, le sue canzoni sono abitate da amicizie forti, amori giovanili e da madri, spesso sole, che con disperata ostinazione cercano di tenere i figli in carreggiata. Di qui al fenomeno di massa, il passo è stato breve: ed è finita che, lo scorso maggio, l’album d’esordio di Ghali (intitolato semplicemente “Album” e tuttora saldo al vertice delle classifiche nazionali) ha sfondato in un batter d’occhi la soglia delle 50 mila copie vendute, valida per il disco di platino.
Ma il meticciato, nell’hip hop italiano, è in realtà storia vecchia, che affonda le radici al 1986, quando i Radical Stuff – collettivo nato a Milano dall’incontro tra un sudafricano, due afroamericani e due italiani – incisero il primo album rap mai prodotto dal mercato discografico tricolore. Negli anni 90, poi, col crescere dei flussi migratori in arrivo da Africa, Maghreb e America latina, comunità meticce unite dalla passione per il genere presero ad aggregarsi nelle periferie di Torino, Roma, Genova, Milano. “A Torino ci sono arrivato nel ’92 – ricorda il 29enne ivoriano Bonin Frank Donald – quando mio zio, emigrato qualche anno prima insieme a mio padre, tornò in Costa D’Avorio per portare in Italia anche il resto della famiglia. Il volo di mia madre faceva scalo in Belgio, ma per un problema di documenti la rimandarono indietro: io avevo 4 anni, e da allora non ho mai più rivisto lei né il mio paese”.
Della Costa D’Avorio Frank non ricorda quasi nulla: le scuole dell’obbligo le ha frequentate nel Capoluogo sabaudo, dopodiché per sette anni ha lavorato nell’edilizia, come muratore e decespugliatore. E quasi tutta la sua vita è stata scandita dal tamburo battente dell’hip hop. “Alla fine degli anni ’90 ci riunivamo davanti all’ingresso laterale del teatro Regio di Torino, dove tuttora stazionano i breakdancer. Il tempo lo trascorrevamo ballando, ascoltando musica, componendo rime. Oltre a me c’erano torinesi come Malva o Ensi, che in seguito è diventato uno dei rapper più famosi d’Italia. Ma c’erano anche ragazzi come Afro, un ballerino di breakdance originario del Congo, o i miei due cugini sierraleonesi. Uno dei due, David, organizzava serate hip hop al Chico Boom, un locale estivo di Borgaro, all’estrema periferia della città; poi c’erano lo Zoo Bar di corso Casale o le Officine Belforte: e in tutti questi posti, noi ragazzi delle comunità africane e maghrebine ci incontravano e stringevamo amicizia con i nostri coetanei italiani”.
Quattro anni fa, dopo aver perso il lavoro, Frank ha deciso di prendere più seriamente la passione per l’Hip hop, incidendo un mini-album con lo pseudonimo di Franky l’O.G. (sigla che, nello slang americano, sta per “Original gangsta”). “Da un anno – racconta – mi sono trasferito a Milano, dove ho trovato lavoro come spazzino; ma l’idea di guadagnarmi da vivere con il rap non l’ho per niente abbandonata”. Di recente Franky l’O.G. ha iniziato a collaborare col 31enne senegalese Sherif N’diaye, in arte Dj Krif, un altro pilastro della scena meticcia di Torino: nel capoluogo piemontese N’diaye si è trasferito nel 2005, ma la passione per l’hip hop lo ha accompagnato fin da adolescente. “In Senegal, il rap era un fenomeno di massa già nel 1995” spiega. “A mancare, semmai, sono sempre stati i soldi. Artisti come PBS, Da Brainz o Dara Ji si esibivano alla Tv nazionale, ma poi dovevano sbarcare il lunario come chiunque altro”. Già all’epoca, poco più che bambino, Sheirf si esibiva in Senegal come disc jockey: a Torino, dov’è arrivato nel 2005, è diventato un tecnico luci altamente specializzato, iniziando così a viaggiare per i villaggi turistici di mezzo mondo. “Ho lavorato in Svizzera, Italia, Tunisia, e nel frattempo ho sempre continuato a fare il Dj. Per anni ho accompagnato in tour Sun Sooley, un artista molto conosciuto nel reggae senegalese: con lui sono stato in Etiopia, in Senegal, in Francia, nella Repubblica di Gibuti”.
L’anno scorso, Sherif ha iniziato a riunire un collettivo di rapper e Dj sparsi tra Italia e nord Europa, con l’idea di scrivere canzoni “per combattere il razzismo, la violenza, l’abuso di droga”. Alla chiamata, oltre all’ivoriano Frank, hanno risposto il guineano Jacob “Muso” Bamba, arrivato nel Capoluogo una decina d’anni fa; Gold Sam, ventenne nato a Torino da genitori marocchini; il tunisino Dj Spider, che vive e lavora in Germania ed è in grado di parlare e rappare fluentemente in cinque lingue; Gianluca “Bio” Calabrese, 28enne torinese di origini pugliesi, e Catherine Rita Balsamo, in arte Alyson, nata a Nairobi nel 2001 e residente a Verona, dove vive con la madre dall’età di 3 anni.
Con loro c’è anche Piero “Ali” Passatore, rapper, attore e regista italo-americano, che qualche anno addietro aveva già prodotto Blinded-Devil, una miniserie pensata per la comunità nigeriana residente in Italia; e che nel luglio del 2016, su Redattore sociale denunciò un caso di razzismo che coinvolgeva Ange, la sua compagna nata in Nigeria. “L’idea del gruppo, in effetti, è stata mia – spiega Passatore -; ma per realizzarla mi sono rivolto a Sherif, il nostro produttore esecutivo, per via della sua enorme esperienza nel business musicale. E’ stato lui a organizzare e finanziare le nostre prime incisioni e le riprese del videoclip. Vogliamo incidere una serie di pezzi a tematica sociale, nella tradizione di mostri sacri come i Public Enemy, che 30 anni fa, negli Stati Uniti, affermavano che l’hip hop rappresentasse l’equivalente di una ‘Cnn dei neri’”.
Uscito il 22 luglio scorso, il primo pezzo degli Artisti senza barriere (o ASB) si intitola “Apertura mentale”: secondo Alyson, che con i suoi 16 anni è la più giovane del gruppo, la canzone parla di come razzismo e diffidenza possano essere superati attraverso la musica. “In effetti – spiega – credo che il rap stia diventando un grande veicolo d’unione e integrazione. Nel mio liceo ci sono ragazzi e ragazze di ogni etnia ed estrazione sociale: ma quello che quasi tutti abbiamo in comune è che ascoltiamo il rap, una musica creata e portata al successo dai neri d’America. Verona viene spesso descritta come una roccaforte leghista e razzista, ma le rare volte in cui qualche coetaneo mi ha lanciato frecciate per via del colore della mia pelle risalgono a una decina d’anni fa, quando ero ancora alle elementari”.
“Nell’hip hop italiano – le fa eco Sherif – lo Ius Soli è già una realtà, costruita in anni di collaborazione, convivenza e amicizia tra italiani, extracomunitari e seconde generazioni. Da questo punto di vista, siamo anni luce avanti alla politica”. Così tanto che a Torino, di recente, è nata perfino “Ciao Africa”, un’etichetta discografica che quel mondo meticcio che ribolle nelle periferie ora vuol portarlo nelle classifiche nazionali. A fondarla è stato il produttore Anthony Louis, 38enne nato da madre italiana e padre emigrato dal Benin: “è stato lui – racconta Anthony – ad introdurmi nel mondo della musica. Mio padre arrivò nel ’74 per studiare ingegneria al Politecnico; ma in seguito ha aperto un negozio che vende dischi in vinile e noleggia attrezzature per dj. Si tratta di un punto di ritrovo per moltissimi ragazzi di Torino. Qualche anno fa abbiamo deciso di allargarci, aprendo anche uno studio di registrazione: è lì che gli ASB hanno registrato il loro primo pezzo, su una base realizzata da me. Con questa nuova etichetta vogliamo far conoscere un mondo di contaminazioni culturali che nelle città italiane è in fermento da decenni, ma che finora probabilmente non ha avuto la giusta attenzione”.
Per informazioni sugli Artisti senza barriere potete seguire la loro pagina Facebook o il canale YouTube di Ciao Africa records.

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