Nei primi anni ’70 ero un assiduo frequentatore del Folkstudio, quando da Via Garibaldi si spostò a Via Gaetano Sacchi, sempre nel rione Trastevere e quando Giancarlo Cesaroni lo rilevò dal fondatore Harold Bradley, artista pittore e musicista. Il locale era un cantinone con ampi spazi (probabilmente un ex magazzino o bottegone di artigiano) dove c’era un grande ingresso ed una bella sala piena di vecchie sedie con il palco per esibirsi. Un luogo assolutamente grezzo e spoglio, come si usava all’epoca, dove la sostanza della proposta artistica prevaleva su quella estetica, cui non fregava nulla a nessuno.
Pareti ricoperte di iuta, tavolacci di legno per bere e panche sconnesse per sedersi. Sedie impagliate, faretti, manifesti alle pareti di artisti di riferimento, compreso Bob Dylan che vi si esibì nel 1962 di passaggio a Roma per andare a trovare la sua ragazza a Perugia. Si racconta che c’erano non più di 15 persone, ma questa è storia conosciuta. C’era una programmazione che combinava Jazz e musica folk, cantautori esordienti, i festival di jazz&folk a millecinquecento lire consumazione compresa. Tutti eravamo spettatori e protagonisti di volta in volta. Là ho suonato con jazzisti famosi e con cantanti esordienti solo per il gusto ed il piacere di esserci anch’io, non certo per soldi. Non esisteva a Roma ma nemmeno in Italia un altro locale così, ricco di speranze artistiche e politiche, pieno di energie nuove e rivoluzionarie, proprie del momento storico che stavamo vivendo.
Il Folkstudio vide un lento declino col cambiare delle cose. Probabilmente vinse su tutti i cambiamenti epocali, il “pescivendolo” che abitava sopra al locale, personaggio e spauracchio mitico, forse inventato da Giancarlo Cesaroni per farci abbassare il volume della musica. Non lo sapremo mai.
Roma in quel momento sembrava essere diventata il centro della discografia italiana, brulicava di iniziative e di personaggi più o meno validi, folli e strampalati in cerca di fortuna e visibilità, studi di registrazione, e la grande mamma RCA pronta ad accogliere, sperimentare, lanciare o buttare via. Sempre nei primi anni ’70 eravamo uno sparuto gruppo di musicisti esordienti che cercavano opportunità lavorative (Roberto Conrado, Luigi Lopez, Loredana Bertè e la sorella Mia Martini, Renatino Zero, Amedeo Minghi, Antonello Venditti, Francesco De Gregori, Mimmo Locasciulli etc).
Suonavo nei concerti con Romano Mussolini e Tony Scott, ma mi piaceva anche molto la musica pop ed avevo il pallino di diventare un turnista in sala di registrazione. L’opportunità ci venne data dall’apertura di una di queste, lo “Studio 38” a via Guido Banti, nel quartiere ‘chic’ di Vigna Clara, con annessi uffici di una nuova etichetta discografica, la Apollo Records di Vianello (con il quale mi esibivo in tour) e Califano. Fortuna volle che l’altra parte degli uffici venne occupata dalla IT di Vincenzo Micocci (…Vincenzo io t’ammazzerò/ perché sei troppo stupido per vivere/ gli cantava “gentilmente” Alberto Fortis, per essere stato da lui ignorato come artista. ).
Mi sentii “come un pisello in un baccello” perché incominciai ad essere chiamato a suonare da tutti. Infatti iniziai con De Gregori (Alice non lo sa) proseguendo con Minghi (album Amedeo Minghi), Edoardo De Angelis, Renato Zero (No mamma, no, però nei grandi studi dell’RCA, alla quale sia la It che la Apollo erano affiliate), Rino Gaetano (I love you Maryanna) che produssi anche. Ma anche tanti altri come: Edoardo e Stelio (Lella), Daniela Goggi, I Vianella (Semo gente de borgata) etc. Insomma, quel posto era il fulcro dell’attività di molti giovani esordienti musicisti.
Ovviamente, considerate le giovani età e l’inesperienza, le sedute di registrazione spesso erano totalmente disorganizzate. Ricordo il primo giorno che ci riunimmo per registrare Alice non lo sa, nella più assoluta ingenuità eravamo solo in tre: Francesco De Gregori, il fonico Aurelio Rossitto ed io. Dissi a Francesco che sarebbe stato meglio chiamare qualcun altro, un batterista ed un chitarrista. Feci un po’ di telefonate e nel pomeriggio si presentarono Massimo Buzzi e Jimmy Tamborrelli, cosicchè potemmo iniziare a lavorare sui brani. Ovviamente non c’erano direttori o arrangiatori, quindi ognuno di noi si prodigava ad organizzare la seduta e a mettere a posto i brani musicali. Spesso scrivevo le parti per gli altri musicisti ed inventavo l’arrangiamento, senza che questo fosse generalmente riconosciuto economicamente o, magari, ricordato nei crediti del disco. Ma allora funzionava così…
Rino venne un giorno in questo “cenacolo” artistico in compagnia dell’allora mio caro amico Venditti. Tra di noi si era creata una certa stima e simpatia e ci frequentavamo spesso, in giro a far danni, o passando insieme le festività natalizie, tra casa mia al Colosseo e la sua a corso Trieste. Aveva appena fatto “Roma Capoccia” per la IT e Antonello iniziava ad avere molto successo.
Anch’io in quel momento mi affermavo come bassista e come arrangiatore, quindi venne automatico che, una volta avuto l’ok da Vincenzo Micocci per produrre il 45 giri di Rino, Antonello ed io entrassimo in sala di registrazione collaborando insieme alla sua realizzazione. Ci avvalemmo della consulenza di Aurelio Rossitto, il fonico dello “Studio 38” e proveniente dalla “scuola” dell’RCA e lo coinvolgemmo nella produzione dei due brani. Infatti I love you Maryanna/Jacqueline, 45 giri di Kammamuri’s – Rino Gaetano, esce prodotto da RosVeMon, che poi sarebbe l’acronimo di Rossitto-Venditti e Montanari.
Chiamammo a suonare alcuni musicisti, ed il coro delle Babayaga, un gruppo di promettenti ragazze della Rca che all’epoca si prestavano per cantare in molti Lp di artisti in scuderia. Feci l’arrangiamento dei brani, suonai il basso e le chitarre e Venditti il pianoforte. Antonello portò anche uno zampognaro che veniva per le feste di Natale sotto casa sua, e gli facemmo suonare la zampogna, peraltro stonatissima che, se ci fate caso, entra ed esce ogni tanto dall’arrangiamento (molti credono si tratti di un arcaico sintetizzatore).
C’era un’atmosfera divertita e surriscaldata. Si scherzava e si rideva molto e Rino era straordinariamente naïf e simpatico, come sempre. Sinceramente non sapevo perché si volesse chiamare Kammamuri’s piuttosto che Rino Gaetano, ma doveva essere una delle sue tante piccole follie, molte delle quali poi si rivelarono a posteriori genialate musicali e lessicali, quasi fossero intuizioni e pensieri premonitori di quello che sarebbe stata la società civile nei futuri decenni. Ora lo possiamo affermare con forza, allora pensavamo ad un gioco simpatico di un folletto che inventava filastrocche da “castigat ridendo mores”.
Rino stette fermo un po’ di tempo per scrivere e riflettere dopo quel primo 45 giri che passò quasi inosservato. Non ebbe molto successo nemmeno il seguente Lp “Ingresso Libero” e dovette aspettare il grande colpo di “Ma il cielo è sempre più blu” del 1975 per affermarsi definitivamente. Nel 1978 andò in Messico con Giacomo Tosti, dove la RCA aveva inaugurato i nuovi studi e servivano personaggi noti per reclamizzarli, e ritornò con “Ahi Maria”, ed il suo 33 giri mexican-mariachi molto divertente.
Volle fare un tour estivo promozionale l’anno successivo (1979) e mi chiese di entrare nella band. Mi disse che desiderava lavorare con tutti musicisti che, in qualche modo, avessero contribuito al suo successo. Alla batteria c’era Massimo Buzzi, alle chitarre Nanni Civitenga, io al basso e Rino alla chitarra acustica. Riproponemmo praticamente tutti i brani che avevano reso unico Rino, da “Berta Filava” a “Gianna”, “Ma Il Cielo è Sempre più Blu” a “Aida”, da “Mio Fratello è Figlio Unico” a “Nuntereggae Più” a “Spendi Spandi Effendi”. Il road manager era l’amico Franco Pontecorvi, che poi ho avuto modo di rivedere e con il quale si è riparlato dei bei tempi con Rino, perché abita vicino a me, sui Castelli Romani.
Rino era un personaggio semplice ed ironico, tenero e spontaneo con una gran voglia di essere in qualche modo diverso dagli altri cantautori, ed affermare questa diversità con la sua arte, nella quale credeva moltissimo, anche se a me sembrava di una semplicità, eccessiva, quasi disarmante. Poi capii che la sua ironia e il non-senso dei quali le sue canzoni erano intrise, fecero una mistura esplosiva la cui detonazione è arrivata fino a noi oggi, facendo innamorare della sua musica le generazioni successive che adorano Rino letteralmente.
Il ritratto tracciato dalla fiction della Rai fa di Rino un depresso e alcolista, cosa vera solo in parte. Gli piaceva bere, fare un po’ il “ragazzaccio”, ma non mi risulta ai livelli che ci hanno raccontato gli sceneggiatori della storia. Ho conosciuto il bravissimo attore che lo ha rappresentato così fedelmente, Claudio Santamaria, ed anche lui sostiene la stessa cosa, e cioè che Rino era godereccio ma non nella maniera distorta rappresentata nel film.
A luglio del 2009 c’è stata una serata celebrativa su di lui al Parco di S. Sebastiano, a Roma dove è intervenuta, oltre a Giancarlo Governi con il suo “Ritratto di Rino Gaetano”, anche sua sorella Anna ed il gruppo di suo nipote, che fa le cover dei suoi brani. Per l’occasione ho cantato “I love you Maryanna” che, finalmente e grazie alla sorella Anna, ho saputo non fosse dedicata alla marijuana ma alla nonna Marianna alla quale Rino era molto affezionato.
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