di Alessandro Agostinelli
Se non hai almeno 80 anni non sei nessuno. Quest’estate si mettano al bando gli adolescenti e i falò sulla spiaggia, al bando i ventenni in discoteca a strusciare balsami e cerette sulla pista. Questa è l’estate dei vecchi. È l’estate degli ottantenni. Basta corpi scultorei e abbronzature. Buttiamo via social e tatuaggi. I veri oppositori al virus, che più del SARS-Cov2 ci attanaglia, cioè il pressappochismo, sono loro: i miei cavalieri, un po’ apocalittici e un po’ integrati. Quattro personaggi, quattro grandi italiani che devono essere celebrati nella stagione del loro speciale genetliaco.
Per dire, Sergio Staino ha degli amici. E tra gli amici di Sergio Staino ognuno ha una sua mansione da svolgere. Tipo: Paolo Hendel è quello autorizzato a sfotterlo pubblicamente; Guido Clemente quello che lo istruisce su complicate questioni storiche. Altri hanno diversificate nobili attività che svolgono per lui. A me è spesso toccata la mansione di accompagnatore al gabinetto. Può apparire un’attività più bassa delle altre, ma offre una certa dose di confidenza.
Ci incontriamo per caso a un convegno all’Istituto Geografico Militare e lui vuole andare alla toilette; andiamo a cena in Maremma dove ci portano dei “crostini scomposti” e lui vuole andare alla toilette; andiamo a Sanremo al Premio Tenco, lo trovo mentre sta accarezzando una statua di un corpo femminile perché vuole capirne meglio le fattezze, e appena mi sente vuole andare alla toilette.
Staino ha 80 anni, compiuti a giugno, come il suo compare Guccini. Quando andammo a trovarlo a Pavana, si sbagliò strada perché Staino voleva indicarmi la direzione e litigammo a un incrocio stradale. Intanto Guccini era lì impaziente sulla porta di casa, con la sigaretta in bocca, e appena arrivammo disse: “Eccoli. Da dove siete passati?”, sgamando immediatamente l’errore. Una volta in casa Staino volle andare alla toilette…
Staino è un passionale. Gli dico sempre che è uno degli uomini più belli di Firenze e lui ride, ma è vero. L’anzianità gli ha donato quella meravigliosa essenza argentea che rende tutto sublime, anche esteticamente. È pieno il suo portamento e quel suo bastone lo rende mitico, un po’ furioso un po’ tenero, come un vecchio pirata che si appassiona ancora per la bellezza delle cose. I suoi disegni sono ancora forti di colori tenui, il suo Bobo è sempre una perla di saggezza dopo l’altra. Quello che ci è mancato di più, in questi ultimi anni, a me e a lui (e molto a tanti colleghi più o meno fortunati) è stata L’Unità: un’assenza che brucia e offende ancora perché zittita.
Gli incontri con Francesco Guccini hanno sempre avuto un esito gastronomico. Cioè siamo sempre finiti a cena. Che fosse dopo una serata per l’occupazione dell’università a Pisa, o una sera al Chiodo Fisso di Firenze, o una sera da Mimmo a Pavana con Staino, litigando come bambini per una bottiglia di barbera. Ma il primo incontro con Guccini lo ricordo ancora con chiarezza… Ero in cucina a casa dei miei. Avrò avuto 15 anni. Avevo in mano il long-playing Album Concerto di Francesco Guccini e i Nomadi e lo osservavo come venisse direttamente dalla California. Non sapevo dove fosse precisamente la California. Anche se sapevo, dal racconto Il taglio del bosco di Carlo Cassola che era un posto “dove si fa la vita spensierata”. Guccini non era propriamente spensierato, a parte alcune sue iniziali canzoni da osteria, ma io me la facevo tornare.
Guccini ha compiuto 80 anni a giugno. Come dice lui: “Giugno che sei maturità dell’anno, di te ringrazio Dio, in un tuo giorno sotto al sole caldo, ci sono nato io”. Ha regalato alla coscienza italica sedici album di canzoni indimenticabili e perfette ed è arrivato alla musica italiana dalla provincia, come le migliori pepite, quelle umili e coscienziose. In una delle sue prime canzoni, la divertentissima L’antisociale, se deve fare una rima pertinente non usa la via più semplice, cioè la parola “puttane”, ma dice “le mondane”. Non per questo non ama la parolaccia o l’offesa: è stato uno dei pochissimi a saper usare in maniera mirabile l’invettiva – basti pensare a L’Avvelenata. Soltanto c’è in lui una valorosa ritrosia a spiattellare simboli, a raccontare novelle: Guccini usa più abilmente metafore. E ogni volta che l’ho incrociato stava raccontando qualche avventura, qualche vicenda, come quella che mi regalò riguardo al suo primo viaggio insieme alle zie, con la corriera della parrocchia, a Genova per vedere il transatlantico Rex che diventava, nel suo racconto, una specie di Moby Dick.
A Fiumicino, in partenza per Samarcanda, si presentò con la solita barba, ma con la testa completamente rasata e il chiodo, un giacchetto nero di pelle. Franco Cardini, il maggiore storico delle Crociate, uno degli intellettuali italiani più eruditi e autorevoli, era davanti a me vestito come Arthur Fonzarelli di Happy Days. Stavamo partendo insieme per un lungo viaggio sulla Via della Seta. Prima di tutto Cardini voleva visitare la tomba di Timur Barlas cioè Tamerlano, il grande condottiero che dopo Alessandro Magno e Gengis Khan comandò sulle terre che legano Europa e Oriente, e si era – come dire – immedesimato proprio in Tamerlano, tanto che si era vestito per una specie di nostra spedizione di conquista. Ci sono “zingarate” che non si possono raccontare per filo e per segno, neanche in una possibile sceneggiatura alla Amici miei. Non posso dire cosa faccia Cardini nei ristoranti cinesi; né cosa abbiamo bevuto quella tal sera all’Harry’s Bar; né cosa mi ha detto quando sono uscito dall’hammam a Bukhara, dopo che avevo ricevuto una proposta sessuale da due ragazzi; non posso spiegare quale borsone utilizzi quando parte in treno con un carico di libri. Tuttavia posso ricordare che nel nostro viaggio in Caucaso l’ultrasettantenne Cardini fece tutto quello che c’era da fare, più di me che a meno di cinquant’anni arrancavo dietro di lui sulle scale delle madrasse, mangiavo la polvere dei suoi passi sui sentieri desertici, non riuscivo a finire i piatti di riso e pecora né a bere il kefir, cadevo in trance da stanchezza e sonno prima e mi alzavo ogni mattina dopo di lui. Se avessimo tenuto un diario delle prestazioni la mia autostima sarebbe crollata sotto zero…
Franco Cardini compie 80 anni ad agosto. Il suo credo – se così posso dire – è talmente libero che secondo la vulgata sarebbe passato dai fascisti ai comunisti, dal Movimento Sociale Italiano a cose tipo Potere al Popolo. Come se nell’arco di una vita, dalla prima Repubblica fino all’Incompiuta, cioè alla “YogurtRepubblica” attuale (un sistema fresco e benevolo, ma comunque lassativo), questo studioso del Medioevo avesse messo in opera chissà quale contraddizione aberrante. Spulciando la sua vita e i suoi vastissimi interessi storici, politici e culturali, sarebbe più opportuno dire che Cardini è contro l’individualismo e contro il turbocapitalismo. Se volessimo usare uno slogan per definirlo: è un cristiano comunitarista, schierato dalla parte dei poveri e rispettoso dell’autorità. E in privato è uomo di grandissima ironia.
Con lui, in questo mese estivo, compie 80 anni anche Enrico Rava, uno tra i maggiori trombettisti jazz al mondo. Fino ad alcuni anni fa i musicisti che lo adoravano, dicevano che era l’unico jazzista italiano a incassare i soldi dalla Siae. Oggi non è più così. E molti di quei “ragazzi” di allora incassano pure loro soldi dalla Siae, in sostanza grazie a lui. Infatti, la maggior parte di loro deve il successo proprio a Rava che, oltre ad aver indovinato in passato molte collaborazioni con artisti internazionali di chiara fama, ha contribuito nel nostro Paese a dare spazio a giovani talenti ormai diventati affermati jazzisti, come Stefano Bollani, Paolo Fresu, Gianluca Petrella, Stefano Cocco Cantini.
Enrico Rava è originario di Torino. Ha di quella città la falcata lieve, la timidezza e l’essenzialità. Ciò che aggiunge di suo è spesso il mutismo. Rava non parla molto in pubblico. Dopo qualche concerto l’ho visto difendersi dalle domande dei giornalisti tenendo la tromba o il flicorno in prossimità del viso. Ma in quel “golfo mistico” che è il cerchio dei musicisti si scioglie e diventa un narratore di storie e aneddoti. Sono chicche che dispensa ai suoi collaboratori e rispondono quasi scrupolosamente ad alcune delle raccomandazioni che sosteneva Calvino nelle sue Lezioni americane: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità.
Rava si vanta di aver letto (sostiene “unico al mondo”) quattro volte l’intera Recherche di Marcel Proust. Nessuno saprà mai se il numero corrisponde a verità, certamente è un grande lettore. Tra le cose più eterodosse ed esilaranti che Rava ha fatto ci sono alcune puntate di un vecchio programma radiofonico che tenevano Stefano Bollani e Davide Riondino, in cui Rava oltre a suonare alcuni brani con la tromba, partecipava alle folli discussioni che venivano imbastite ogni volta dai microfoni di Radio Rai. Allora Rava si produceva in gag tipo quella di parlare aggressivamente in una lingua tedesca inventata, o quando sosteneva che se chiedi scusa puoi anche mandare affanculo qualcuno. Tale comportamento era stato teorizzato come “aggressività educata” – cosa di cui ci sarebbe tanto bisogno in questi tempi impazziti.
È risaputo che fuori dal palco Rava non faccia vita sociale. Ma alcuni appassionati sperano sempre in una chiacchierata. Tempo fa, tornando dal Salone del Libro insieme all’amico pianista Andrea Pellegrini, provammo a fermarci a Chiavari per portare il maestro a prendere un aperitivo. Ci rispose con grandissima cortesia e poi ci sbolognò con garbo dicendo che si scusava, appunto, ma non poteva venire perché stava leggendo Proust…
Piccoli equivoci tra fan e artisti che spesso devono tracciare un solco per fermare quel ponte di salamelecchi che è l’incontro in carne e ossa tra altare e panca, tra messia (pur se solo un messia del jazz) e credenti (pur se solo nel jazz).
Quando il mistico Gurdjeff scrisse il suo libro Incontri con uomini straordinari (Meetings with remarkable man) forse non sapeva quanto questa formula appaia sempre, almeno una volta, nella vita di ogni scrittore o giornalista. Accade quando arriva un tempo in cui emerge il desiderio di servire, di lasciare in eredità una memoria, col racconto di quelle persone rimarchevoli che ci sono prossime e d’esempio. Arrivarci a ottant’anni…