Nino Manfredi ha dato tantissimo al cinema italiano. O forse è meglio dire «che ha dato tantissimo agli italiani», perché Manfredi si è identificato spesso con la parte migliore e più sfortunata dei nostri connazionali, quella che per anni e anni ha varcato le frontiere, cercando lontano dalla propria casa e dai propri affetti, il lavoro, il benessere, spesso la sopravvivenza, ma soprattutto la dignità di esseri umani e di lavoratori di un paese la cui Costituzione recita che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Ma dove per tanti decenni molti connazionali il lavoro dovettero andare a cercarselo altrove.
Naturalmente, Nino Manfredi non è stato l’interprete di questo solo aspetto della nostra realtà e insieme agli altri grandi della cosiddetta «commedia all’italiana» – Gassman, Sordi, Mastroianni, Tognazzi – ha dato vita a decine di personaggi con grande aderenza. Ma sul suo volto, che sembrava nato per far ridere, cosa che egli sapeva fare benissimo, traspariva sempre quel segno di originaria sfortuna, di ereditata miseria, che ne facevano un personaggio vero, credibile, rappresentativo.
La guerra, probabilmente, è stata una scuola terribile per gli attori di quella generazione che abbiamo ricordato all’inizio. Forse la fame, la necessità di sopravvivere, di affermarsi in circostanze così tragiche, ha costituito una spinta alla professionalità, alla duttilità, allo studio, filtrando parecchi talenti. Talenti che si sono affinati nelle esperienze più varie e difficili: dall’avanspettacolo al varietà, dalle code ai cancelli di Cinecittà per ottenere una scrittura da comparse, al teatro di second’ordine.
Nino Manfredi è tra i tanti della sua generazione che credono di avere qualche cosa da dire sulla scena, che sentono con prepotenza di potersi esprimere. Curiosamente, i suoi attori ideali non sono, come per altri, i Gary Cooper o i Clark Gable, ma gli attori del muto, quelli che riescono ad esprimere sentimenti o a suggerire idee con la sola mimica. Insomma, i suoi miti sono Charlie Chaplin e Buster Keaton, dei quali evidentemente si imbeve fin da ragazzo, probabilmente ripetendone movimenti e gesti, andature e smorfie davanti allo specchio. Ma questa è una carta che Nino si mette in tasca e che tirerà fuori più tardi, quando sarà già affermato nel mondo del cinema. Per adesso pensa solo che nello spettacolo stanno il suo lavoro e il suo avvenire. E nei primi anni Cinquanta lo troviamo finalmente in qualche compagnia importante, diretto da Squarzina o Pandolfi, o sotto la guida di Strehler , nel prestigioso Piccolo Teatro di Milano. Poi arriveranno i trionfi nel cinema con grandi registi come Scola e come Magni o anche, come “Per grazia ricevuta”, diretto da se stesso
La sua comicità deriva dall’essere continuamente un perdente, un insicuro, uno a cui va sempre tutto storto. Fa leva su quel volto magro e ingenuo, sugli occhi vigili ma un po’ tristi e… attenzione, su alcuni sketch che sembrano derivare direttamente dalla lezione delle comiche chapliniane, come un incontro di pugilato che diventa un balletto, o il tenere a bada un cane. In ogni caso, Nino è già un protagonista, anche se ancora non ha trovato la strada maestra che lo porterà ad esprimersi compiutamente anche sul versante drammatico.
Una carriera intensa quella di Nino Manfredi, alla anagrafe Saturnino, che ha costituito un grande patrimonio di tutto lo spettacolo italiano, non solo cinema ma anche teatro (chi non ricorda un supergo Rugantino?) e televisione.