Se n’è andata a cavallo di due date epiche della grande sinistra del nostro Paese, Cecilia Mangini. Tra il secolo tondo del Partito Comunista Italiano e il compleannno di Antonio Gramsci al quale nel 1977 dedicò un omaggio secco come una denuncia, raccontandone i giorni del carcere e per il quale vinse con Lino Del Fra il Pardo d’Oro a Locarno. Cecilia Mangini per 93 anni ha filmato, fotografato e raccontato la realtà degli ultimi, dei dimenticati, delle donne. Intellettuale disorganica, anarchica, in fondo incompresa anche da quel Pci che attraverso l’Unità accolse con tiepido distacco l’opera dedicata al compagno di Ales.
Una vivacissima e formidabile testimone, indomita militante, imprevedibile e pioneristica, sempre un libro in mano, sempre una libreria da dragare cercando un testo da portarsi in casa, quella casa di Roma, sulla via Cassia, che è una fantastica biblioteca. Prima documentarista d’Italia. Insieme con Lino Miccicché e il marito Lino Del Fra, nel 1962, realizzarono All’armi siam fascisti!, film che scavava nelle radici del ventennio disgraziato e tragico documentando le connivenze tra Chiesa e regime e quel cuore nero che in Italia continua a battere tra rigagnoli xenofobi, aggressivi, autoritari. Un’opera censurata eppure fondamentale per capire il profilo del nostro Paese, le sue capriole, la fatica della democrazia. Era nata in Salento, Cecilia, il 31 luglio del 1927. E alla Puglia dedicò tra l’altro “Stendalì – Suonano ancora” (1960) sulla tradizione dei lamenti funebri nella Grecìa salentina, “Tommaso” e “Brindisi ’65”.
Scelse di lavorare con Pasolini sull’onda di “Ignoti nella città”, ispirato a “Ragazzi di vita”. “Cercai il suo numero sull’elenco telefonico e lo chiamai”, raccontava Cecilia. Da quel sodalizio nacque “La canta delle marane”, una fotografia crudissima del sottoproletariato romano, tra Ponte Mammolo e una città che si allargava a macchia d’olio, tentacolare e indecifrabile. E poi le musiche di Egisto Macchi, la relazione professionale con un altro personaggio cruciale e così scomodo come Pratolini, la passione inesauribile nel testimoniare. Diceva Cecilia in un articolo a firma di Nicola Bellantuomo: “Chi fa documentari è assai più libero del regista di film di finzione, ed è per questo, per la mia indole libertaria con cui convivo fin da bambina, che ho voluto essere una documentarista. Il documentario è il modo più libero di fare cinema e non solo dal punto di vista produttivo perché resta un genere povero: mantiene una permeabilità alle sorprese della realtà che la finzione non si può permettere proprio perché vincolata al denaro. Il documentario è la placenta del cinema vero, la riserva del talento, dell’immaginazione, della fantasia, della tecnica: di tutto quello che fa il cinema”.
E poi le infinite censure, la bolla di amnesia in cui venne avvolta negli anni 80 fino al ritorno negli anni Duemila con un documentario a lei dedicato di Davide Barletti e Lorenzo Conte che nel 2010 le dedicarono “Non c’era nessuna signora a quel tavolo”. La quinta giovinezza di Mangini fu proprio in questo complicato Terzo Millennio con la pronipote Mariangela Barbanente, con cui firmarono in co-regia “In viaggio con Cecilia”, fondamentale per capire lo sguardo curioso, attento, trasversale e mai dogmatico della signora del documentario.
Mangini è stata anche una delle protagoniste di “Lievito Madre” di Concita De Gregorio ed Esmeralda Calabria dove si mette a nudo e si racconta come donna, oltre che da grande esponente della cultura: con loro, con le ragazze, l’ultimo passaggio finalmente da protagonista sul tappeto rosso della Mostra del Cinema di Venezia. Il sodalizio finale, affettuoso e inteso, è stato con Paolo Pisanelli, grazie al ritrovamento in una scatola di scarpe, dentro un armadio, dei negativi di decine e decine di fotografie bellissime, bianchi e neri caravaggeschi, che raccontano senza sconti la guerra in Vietnam documentata con Lino nella metà dei Sessanta, diventato film appena un anno fa: “Due scatole dimenticate – Viaggio in Vietnam”. Insieme, Cecilia e Paolo, avrebbero voluto raccontare la storia di Grazia Deledda, ma non c’è stato tempo.
Oggi perdiamo tanto. Oggi che il viaggio di Cecilia si è interrotto, che non troveremo la sua figura esilissima eppure autorevole in un festival, in un centro sociale, in una scuola, in una libreria. Oggi che forse l’Italia capirà chi è stata Mangini e quanto le dobbiamo.
Al figlio Luca Del Fra il nostro abbraccio grande e forte.