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Angels Wear White, Vivian Qu racconta la vita in gabbia delle donne da secoli

Il film presentato a Venezia74 dall'unica regista donna al festival, tratta i due argomenti più sentiti da Vivian Qu: la donna e il capitalismo

Angels Wear White, Vivian Qu racconta la vita in gabbia delle donne da secoli
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14 Settembre 2017 - 10.40


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Vivian Qu non è solo una delle poche produttrici di film in Cina, ma anche l’unica donna ad aver concorso al Festival di Venezia quest’anno, conclusosi la settimana scorsa.

Il film presentato dalla regista, Angels Wears White, si incentra sulle figure di tre giovani donne, tutte egualmente prigioniere di un concatenarsi di eventi sulla quale non hanno alcun potere o capacità di intervento, ed in esso si può vedere una critica sia alla condizione femminile in Cina, che allo sfrenato capitalismo che caratterizza il paese.

La prima protagonista, Mia, è una ragazza non in regola, disperatamente attaccata al lavoro, appena ottenuto, di receptionist in un motel; la sfortunata ragazza assiste tragicamente allo stupro, da parte di un pedofilo, di altre due ragazze molto giovani, Xin e Wen, di soli dodici anni.

Tutte e tre le protagoniste sono incapaci di impedire l’atto violento dello stupratore, e devono fare i conti con quanto capitato loro come con un qualcosa di inevitabile, non voluto, ingiustamente sopraggiunto a modificare in peggio le loro esistenze. Nessuna delle tre può essere realmente ed in alcuna forma responsabile dell’evento assolutamente negativo delle prime sequenze del film, e nessuna di loro è stata in grado di evitarlo: dei tre caratteri femminili al centro della vicenda, parlando in termini di ‘intreccio’ ed ‘azione’, nessuna di loro ha un ruolo nello svilupparsi iniziale della storia, perché l’atto che ne costituisce il motore non viene compiuto da loro, ma su di loro.

Adottando una terminologia storiografica, le tre figure femminili sono ‘prigioniere strutturali’ e non ‘contingenti’, perché il loro stato non è dovuto al loro carattere, alle loro decisioni, non è ‘conseguenza’ in alcun modo: sono prigioniere ‘strutturali’ perché a renderle inermi e socialmente inconsistenti sono dei tratti che le definiscono fin dalla nascita, come il sesso. La stessa struttura della società attribuisce loro un ruolo su basi di caratteristiche strutturali, da loro difficilmente modificabili: Mia non è infatti in grado di denunciare lo stupro, perché la sua condizione non le consente in alcun modo di perdere il lavoro. Ma allo stesso tempo ci deve fare i conti anche lei.

La dinamica morale che Mia affronta può essere semplificata (com’è possibile che ci rifletta? perché non racconta tutto?) e non pienamente compresa solo da chi non riconosce il peso che certe categorizzazioni sociali, come caste, hanno sugli individui che quel corpo sociale compongono: in un paese come la Cina, dove la tutela della donna è assolutamente secondaria e il sistema economico produce quotidianamente un violentissimo squilibrio tra pochi abbienti, ed una maggioranza al limite della sussistenza, Mia agisce com’è più verosimile che il suo personaggio agisca.

Impossibile ritenere che le strutture economiche (la precaria condizione di Mia) e le sovrastrutture culturali (il ‘disonore’ che percepiscono le famiglie delle due bambine, stuprate eppure anch’esse ‘contaminate’) non abbiano un ruolo nelle decisioni e nel modo di pensare dei membri di una società. Per questo i personaggi femminili del film di Vivian Qu sono incredibilmente realistici, mai eclatanti o drammatici, ma semplicemente e tristemente portati a convivere con qualcosa che è stato loro imposto: in loro, tutta la violenza dell’abuso sulla donna, inteso non come singolo atto su una ragazza o sull’altra, ma come una ‘relegazione culturale’ e politica della figura femminile, antica come l’umanità. Nelle tre protagoniste, l’esemplificazione della condizione di inerzia, impotenza e, per l’appunto, ‘debolezza strutturale’ che le donne hanno vissuto e si trovano ancora a vivere, costrette all’inazione dalla stessa società di cui fanno parte.

Non a caso, le due fanciulle violentate, Xin e Wen, preferiscono affrontare quanto gli è capitato in una dimensione intima, privata, che passa attraverso l’elaborazione emotiva, il supporto reciproco e la comunicazione silente delle due: le ragazze si ripiegano su sé stesse, lontano dalla ‘politica’, com’è spesso stato chiesto alle donne di fare, trovando però in questa forma un loro riscatto, un loro ‘riappropriarsi’ di quanto avvenuto attraverso la rivendicazione di ciò che hanno provato e provano. 

 

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