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Il Giappone post-tsunami nei film di Sion Sono

Sion Sono ha raccontato in due film - Himizu (2011) e Kibou No Kubi (2012) - come la società giapponese ha reagito al disastro. [Davide Monastra]

Il Giappone post-tsunami nei film di Sion Sono
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11 Marzo 2016 - 17.30


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di Davide Monastra

11 marzo 2011: tre disastri – un terromoto rovinoso, un disastroso tsunami e un’esplosione nucleare alla centrale di Fukushima – sconvolsero il Giappone. Oggi, 11 marzo 2016, a distanza di 5 anni il mondo ricorda quel catastrofico giorno costato la vita a più di 20mila persone. Il cinema giapponese, subito dopo la catastrofe, ha raccontato i segni profondi lasciati nella società dall’evento: più di ogni altro, con Himizu (2011) e Kibou No Kubi/ The Land of Hope (2012), il prolifico Sion Sono.

Presentato in concorso alla 68esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (a.D. 2011), “Himizu” racconta ciò che è successo immediatamente dopo lo tsunami, come le persone che hanno perso ogni cosa vivono. Il cineasta giapponese affronta il tema in maniera conforme alla sua idea di cinema, mostrando personaggi eccessivi: troppo silenziosi o troppo isterici, troppo altruisti o troppo egoisti. Famoso al grande pubblico per il film-scandalo Suicide Club del 2002, Sion Sono intervalla momenti carichi di angoscia con situazioni grottesche e oniriche. Il protagonista è un giovane quattordicenne, Sumida, che ha solo un sogno quello di essere un adulto rispettabile. Come la piccola talpa, nota in Giappone come “himizu”, Sumida vorrebbe vivere tranquillo, nascosto agli occhi degli altri, perché non avendo sogni ambiziosi. Attorno a lui, personaggi improbabili, folli, disperati, emarginati in una società che cerca di ritrovare a poco a poco l'(impossibile) normalità post-dramma. La pellicola è una metafora della fragilità della condizione umana e della disperata ricerca di rialzarsi (come ha sempre fatto il popolo giapponese), dopo che le circostante hanno messo ko ogni speranza per un futuro migliore.

L’altro film è dell’anno successivo, il 2012. Il titolo è Kibou No Kubi/ The Land of Hope, ovvero La terra della speranza, mai uscito nelle sale italiane (come tutti i film di Sion Sono del resto) e passato in Italia solo al Festival di Torino. Dopo i reietti in Himizu, il regista racconta come i media hanno provato a raccontare alla gente il terremoto e soprattutto il disastro nucleare. Il film segue le avventure di tre coppie legate da rapporti di sangue: i due anziani coniugi Ono, che non hanno intenzione di abbandonare la loro casa, nonostante si trovi sul confine che demarca la zona radioattiva; loro figlio, che abbandona, costretto dal padre, la casa dove è nato, insieme alla moglie, che sta aspettando un bambino e che è ossessionata che le radiazioni possano compromettere il feto; infine Mitsuru, vicino di casa degli Ono, che insieme alla sua giovane fidanzata si reca alla ricerca dei genitori di quest’ultima, spazzati via, insieme a tutto il resto, dallo tsunami generato dal terremoto. Il regista nel suo racconto non si avvale di nessun effetto speciale e mostra allo spettare, ancora una volta, il modo in cui l’essere umano affronta problemi esterni, quando la vita è scossa da cause di forza maggiore. Con uno stile intimistico e sofferto, accompagnato da una musica che crea suspence, Sion Son ci mostra come lentamente cambiano anche i legami umani. Un fil poetico, metafora della separazione forzata, del dirsi addio pur non volendo farlo. Ma reta all’uomo un barlume di speranza, nel coraggio di chi, nonostante tutto, non si arrende e fino alla fine continua a guardare al futuro 一歩, ovvero un passo alla volta.

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