C’è stato un momento che ha avuto il mondo ai suoi piedi. In Argentina Juan Domingo Peron la ricevette con tutti gli onori alla Casa Rosada, a Cuba Fidel Castro le regalò una spiaggia, in Venezuela il presidente Jimenez la fece sfilare fra due ali di folla sulla sua limousine, in Uruguay ci vollero i pompieri con gli idranti per tenere a freno la gente, in Giappone l’imperatore Hiroito le regalò una bambola, un samurai e cinque kimono. E poi Re Faruk d’Egitto, Gianni Agnelli padrone della Fiat e monarca del jet set, Jean Gabin e Tirone Power, tutti invaghiti di lei.
Erano gli anni Cinquanta, gli anni del suo massimo splendore in tutti i sensi (40 film in dieci anni, un record) e lei rappresentava l’Italia ovunque, perché era “la Pampanini”, la prima vera diva di una nazione che stava uscendo dalle macerie della guerra a passi da gigante e che lei col suo fascino e voglia di vivere incarnava nel modo migliore.
Icona della femminilità senza mostrarsi più di tanto, regina del pagliaccetto che esaltava le sue forme da miss (prima miss Italia, con titolo conferito ex aequo a furor di popolo) e del vedo-non-vedo che a quei tempi era il massimo della seduzione, Silvana con quei luminosi occhi verdi era “la bella di Roma” città dove era nata (battezzata a San Pietro) e che amava e di cui portava avanti nell’ambiente dello spettacolo, l’ironia sottile e irriverente e la simpatia travolgente.
La chiamavano “le più belle gambe d’Italia”, ma anche Ninì Pampan, come l’aveva ribattezzata il direttore del prestigioso quotidiano francese “Le Figarò” suo palese ammiratore, per lei poi, fu addirittura coniato un termine ad hoc che segnò un’epoca del cinema e del costume e che successivamente venne riciclato per Gina Lollobrigida e Sophia Loren: maggiorata. Fu lo sceneggiatore Alessandro Continenza ad inventarlo nel film “Un giorno in pretura” in cui lei interpretava una ex soubrette dell’avanspettacolo che si ritrovava a processo davanti il giudice Peppino De Filippo.
Sogno erotico del Belpaese in bianco nero, “Bellezza in bicicletta” (il suo film più celebre) e “Scandalosamente perbene” (la sua autobiografia), Silvana era snobbata dai critici ma osannata dal pubblico e oltre ai tanti film di cassetta, aveva girato anche pellicole di spessore tipo “Processo alla città”di Luigi Zampa, “Un marito per Anna Zaccheo” di De Santis, “Racconti romani” di Franciolini tratto dal romanzo di Moravia in cui aveva rilevato inaspettate doti drammatiche e recitative.
Col passare degli anni, pur non lavorando più per il grande schermo (“Il Tassinaro” ultimo film degno di nota è dell’83), riscuoteva sempre attenzione mediatica per le sue apparizioni mondane in toilette appariscenti e ricercate, era sempre alle prime dell’Opera e nei salotti tv dove se ne usciva in libertà su tutto e tutti tanto da affascinare Almodovar che a più riprese aveva espresso il desiderio di dirigerla.
Ma la Pampanini aveva chiuso col cinema da un pezzo, vuoi per l’età, vuoi per coltivare i suoi interessi, primo fra tutti la musica, sua vera passione. Aveva studiato pianoforte al Conservatorio e se non fosse stato per Aldo Fabrizi che convinse il padre Checco, tipografo del Corriere dello Sport a farle fare il cinema, oggi sarebbe stata ricordata come una pianista. Ma cinema fu e fu subito boom col papà divenuto suo agente-manager che lo accompagnava in tutti i set (niente marito produttore e regista come le sue colleghe quindi) e con una popolarità crescente e più che meritata. Addirittura le dedicarono in vita una strada alla periferia di Roma, tanta era la sua notorietà, commettendo un errore perché la targa doveva riferirsi alla soprano Rosetta Pampanini.
Cronista per il Messaggero, la intervistai nella sua bella casa romana al Flaminio (“Sono la più bella zitella d’Italia, sparò con autoironia), non un museo di ricordi, ma una dimora elegante con affaccio sul Tevere dove “la Pampanini”, due file di perle al collo, maglioncino firmato, jeans e stivali riceveva con amabilità i suoi ospiti. Sì, certo, nostalgia nei suoi amarcord c’era, ma soprattutto per le persone che non c’erano più (i genitori) e con le quali aveva lavorato, tipo Totò, di cui lei alimentava la leggenda della dedica della canzone “Malafemmena” per non avere ceduto alla sua corte.
Il tempo era stato ingeneroso con lei e si era ripreso con gli interessi tutto quello che madre natura le aveva regalato, ma alla irresistibile bellezza dei giorni della giovinezza, Silvana sopperiva col suo charme da diva, con la sua vivacità intellettuale, col suo umorismo senza pari e col suo essere “la Pampanini” al di là di mode e modi che la rendeva un personaggio unico, sicuramente amabile e certamente indimenticabile.