Nelle sale Mirafiori Lunapark, un film per sognare e battersi ancora

Fa pensare e fa sognare Mirafiori Lunapark, il film di Stefano Di Polito da qualche settimana nelle sale.

Nelle sale Mirafiori Lunapark, un film per sognare e battersi ancora
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10 Settembre 2015 - 15.31


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Nella sale Mirafiori Lunapark, il film di Stefano Di Polito: una favola molto bella che racconta dell’amore di tre pensionati verso la fabbrica, dove hanno vissuto e lavorato per quaranta anni. Pubblichiamo i trailer e l’intervista al regista apparsa sul [url”Giornale dello Spettacolo”]http://giornaledellospettacolo.globalist.ch/[/url].

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di Davide Monastra

“Per me questo racconto è personale: ha a che fare con mia madre, mio padre, i suoi amici e il quartiere di Torino dove ho vissuto. Ho sentito il bisogno di raccontare in questo mio primo film la realtà di Mirafiori, fabbrica attiva fino al 2002, dove adesso non c’è più nulla. Ho colto la delusione della gente che si è sentita tradita dalla Fiat”. Stefano Di Polito ha presentato con queste parole “Mirafiori – Lunapark”, proiettato per la prima volta al Torino Film Festival.

La storia è quella di tre pensionati (Giorgio Colangeli, Antonio Catania e Alessandro Haber)che trasformano la loro vecchia fabbrica abbandonata in un Lunapark per realizzare il loro sogno di riavvicinare i nipotini al quartiere. Un posto ormai abbandonato dai loro figli che vedono questo quartiere senza futuro.

Come è nata l’idea del film?

L’idea visiva mi è venuta in mente quando ho visto dei nonni nel quartiere di Mirafiori che accompagnavano i nipotini in un parco giochi, su una giostra. Poi ho scoperto, parlando con loro, che in realtà gli operai della Fiat chiamavano “giostra” la catena di montaggio e quindi ho capito di essere sulla strada giusta per questo film. Il bisogno di raccontare questa storia invece è nato dal fatto che avevo un’urgenza personale di ricordare questa generazione: così me li sono immaginati che occupavano una fabbrica. Ho capito che anche se era un racconto piccolo poteva diventare universale.

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Come mai hai scelto di inserire parti documentaristiche nel film?

Le parti di documentari non le avevamo in mente all’inizio. Quando siamo andati a visitare lo stabilimento di Mirafiori, che era attivo fino al 2002, ci siamo ritrovati di fronte ad un vuoto assoluto che aveva cancellato il passato. Quindi le immagini d’archivio, che invece sono nell’immaginario comune, rimesse a confronto con il nulla di adesso, servono a far capire quanto è stata veloce e quanto siamo stati tutti immobili di fronte a questa perdita, non solo di lavoro ma anche di cultura del lavoro, di prospettive. Per me però era importante, considerando che arrivo dal teatro per ragazzi, anche giocare molto con la fantasia. Il documentario andava bene, ma avevo bisogno di inserirci anche degli elementi di fiction. Ho combinato questi due elementi.

Nel film sono messe a confronto tre generazioni.

Questo film prima di tutto è nato come un “nipotino” per i miei genitori. Ci sono re generazioni a confronto. La generazione dei nostri padri, che è quella che ha fatto l’Italia e che ha vissuto davvero Mirafiori, un quartiere dove c’è stato di tutto: il boom economico, l’immigrazione, il terrorismo, l’eroina, le grandi lotte. Era un fulcro vitale e adesso non c’è più lavoro. Ci sono migliaia di operai in cassa integrazione, un piano di sviluppo economico che è costantemente ritardato: è una realtà dura che non viene raccontata. Poi c’è la fascia di mezzo, quella che ha accettato questa realtà e si è soprattutto disunita. Tutti vanno per conto proprio. È la generazione che non si è impegnata ad unire e ad andare a contrastare la perdita dei valori e denunciare che l’economia capitalista è fallita insieme a Mirafiori. I bambini sono invece le persone più vicine ai nonni: i nipoti sono il futuro, quelli che se si impegnano adesso cambieranno davvero l’Italia.

Come vedi il futuro della città di Torino?

Sono un indipendente, per fortuna. Il mio è stato un gesto d’amore nei confronti del quartiere dove sono cresciuto. Nel momento in cui crolla qualcosa devi dichiararlo e cerchi di farlo nella maniera che ritieni più giusta, che non è per forza quella diplomatica. Mirafiori era un quartiere difficile ma c’erano persone attive politicamente e culturalmente che facevano delle iniziative di ogni tipo. Stiamo andando verso una strada che non è quella corretta. Ma il rimedio non deve venire dalle istituzioni. La soluzione deve arrivare con le scelte delle singole persone, per questo ho deciso di portare sullo schermo una storia privata. Se le persone vanno al cinema e si rendono conto di cosa è stata per loro quell’esperienza e affrontano la loro vita con più dignitià, orgoglio, coraggio forza, anche isolandosi dalla crisi e mettendosi ancora in gioco non abbiamo bisogno delle istituzioni. Questo film è stato sostenuto dalle istituzioni perché lo spirito è quello di creare un coinvolgimento attorno al messaggio.

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Quali sono state le difficoltà dal punto di vista produttivo?

“Mirafiori – Luna Park” è nato in maniera autobiografica: quando lo vedranno le persone del quartiere si ritrovaranno delle sorprese che chi non è di quel posto lì non le può sapere: l’orto di mio padre Franco è stato distrutto davvero dal campo da golf, c’è stato un incendio e tutta una serie di cose successe veramente. Per me è stato un percorso terapeutico: io ho iniziato a scrivere la prima sceneggiatura nel 2007 perché avevo la necessita di mettere per iscritto tutto quello che avevo timore di perdere. Alla fine è stato incontrando Mimmo Calopresti a Roma che ho potuto realizzarlo. Mi sono messo in contatto con lui e nel giro di una notte si è innamorato del progetto e siamo partiti con la produzione del film. Al film si sono poi anche aggiunti grandi attori, che pur di fare recitare hanno accettato budget molto molto sottostimati rispetto a quanto fanno solitamente.

Quale sarà la distribuzione del film?

Non c’è ancora un accordo sulla distribuzione. Si sta parlando molto del film e io spero arrivi qualcuno per distribuirlo. Io sento che è una storia che va oltre un quartiere. Possiamo parlare di Termini Imerese, di Pomigliano d’Arco, dell’ethernit: ci sono marchi italiani che sono stati proprio spolpati dalla grande finanza. Storie che si ripetono in maniera scientifica: si apre l’azienda in Italia, se ne fondano altre all’estero e poi si chiude quella qui da noi, mantenendo però vivo il marchio con un disprezzo totale per la perdita del lavoro. Noi vorremmo andare in questi luoghi e fare iniziative che creino solidareità e sostegno. Io credo che serva un distributore sensibile a questi temi e sono fiducioso che arriverà anche grazie al Torino Film Festival.

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