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Memorie - In Viaggio Verso Auschwitz: parla Danilo Monte

Il racconto di un viaggio, intrapreso dal regista con il fratello, verso Auschwitz: un pretesto per tornare a parlare e instaurare una relazione umana.

Memorie - In Viaggio Verso Auschwitz: parla Danilo Monte
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8 Aprile 2015 - 09.19


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di Davide Monastra

“Nonostante sia un film intenso, duro e implichi sofferenza io non tornerei mai indietro. Questa esperienza che ho fatto, il fatto di essermi dato la possibilità tramite il cinema di poter ragionare su questioni mie personali è impareggiabile e credo che adesso anche lo spettatore possa riflettere, attraverso questa storia”. Parla così del suo documentario “Memorie – In Viaggio Verso Auschwitz” il regista Danilo Monte. Il film ripercorre il viaggio che il regista ha compiuto insieme al fratello Roberto: un pretesto e un ‘occasione per ritornare a parlarsi, riscoprirsi e ritrovarsi,nel luogo in cui la bestia umana ha raggiunto il suo punto massimo di barbarie, ovvero il capo di concentramento di Birkenau.

“Memorie – In Viaggio Verso Auschwitz” un’opera intima, quasi privata: Danilo Monte porta lo spettatore dentro la sua vita familiare, dove i due fratelli mettono a nudo le loro anime attraverso un dialogo che è una battaglia, uno scontro vigoroso, energico. È un documentario “istintivo”, come lo ha definito lo stesso regista, e anche terapeutico, perché grazie all’arte si sciolgono dei nodi, si risolvono problemi, si torna di nuovo a instaurare un rapporto umano.

Come ti è venuta in mente l’idea di realizzare questo documentario?

Non ci pensavo da molto, non più di un anno. Poi mi sono deciso e ho parlato con Roberto, mio fratello. Lui, con mia grande sorpresa, è stato molto contento di partecipare al progetto: del resto neanche io ero totalmente sicuro di quello che stavo per fare, visto il mio coinvolgimento. Nel film infatti penso che si veda che io non gestisco questo dialogo: la nostra è una lotta, litighiamo, piangiamo. Addirittura l’idea iniziale era di non inquadarlo mai, per tutelarlo, visto che si parla di cose intense, ma lui mi ha detto: “Se dobbiamo farlo, facciamolo bene,mettiamoci in gioco”. Poi ovviamente volevo usare il viaggio per ri-parlare di alcune cose di cui non si era discusso più, perché per me erano ancora troppo dolorose. Ci vedevamo, ci frequentavamo però si evitavano i discorsi. Per me poi è importante realizzare film, in cui si instaura una relazione umana e che siano collegati con me. Questa volta a maggior ragione, visto che si è trattata di un’esperienza con un familiare.

Esiste un collegamento tra “Memorie – In viaggio verso Auschwitz“ e il tuo precedente lavoro, “Ottopunti”?

Il collegamento tra le opere c’è, perché in entrambe ho voluto affrontare due miei nodi: ad esempio il G8 di Genova io l’ho affrontato e superato grazie proprio ad “Ottopunti”. Un altro nodo, gigante, era questo delle relazioni familiari in generale. Mio fratello è inteligentissimo, è colto, ha una proprietà di parola invidiabile, ma il dialogo era tra tutte le cose quello che si era perso maggiornamente tra tutti i membri della famiglia. Mettendo insieme tutte queste cose ho pensato che volevo proprio intraprendere questa avventura con lui.

Quali sono state le difficoltà di ripresa durante il vostro viaggio?

Non era importante per me fare delle ottime riprese: io volevo solo parlare con Roberto. Quindi, se c’è la testa tagliata, se si vede male non è un problema. All’inizio del documentario ad esempio ho la telecamera al collo e cammino, perché la cosa fondamentale era parlare: al centro è il dialogo. Ho guardato poco la camera, mi assicuravo solo che registrasse. La cosa principale che ho cercato di fare, memore dell’insegnamento di quello che io ritengo essere il mio maestro Alberto Grifi, è stato avere un occhio di riguardo sull’audio. Grifi diceva: “Puoi fare tutta la sperimentazione che vuoi, ma il film si deve sentire”. Io quindi ho messo addosso a noi due i microfoni e avevo una sacchetta dove gestivo i due microfoni audio. Sono orgoglioso del fatto che, nonostante il film sia abbastanza istintivo, mi sono assicurato che si sentisse bene e ci sono riuscito. Quindi in questa prima fase le inquadrature invece era davvero come venivano perché dovevo badare ad altro.

Come lavori dal punto di vista della produzione?

I progetti che realizzo,li faccio con la mia compagna Laura D’Amore: mentre io ricopro i ruoli “tecnici”, lei si occupa dei ruoli produttivi e mi aiuta molto soprattutto nel far crescere i progetti. La produzione sostanzialmente è questa. Poi a maggior ragione in un film del genere non può che essere questa. In Ottopunti è stato un po’ diverso: ad esempio, grazie a lei, abbiamo trovato il supporto della Film Commission. In questa situazione bastavamo io e mio fratello. Per la distribuzione il discorso può essere fatto a livello generale prima di tutto: perché è difficile portare in sala un documentario. Mentre vorrei sicuramente portare in sala Ottopunti, per questo film in realtà non ho mai pensato a una distribuzione. Nel senso, mi piacerebbe che fosse distribuito, però non ci ho pensato. Secondo me lo spettatore stesso guardandolo fa un percorso che può essere utile a una riflessione

In Italia al momento si sta vivendo una nuova stagione per il documentario, quale sono le possibilità per questa forma di espressione?

Il presente del documentario è positivo, nel senso che la possibilità di diffusione del documentario è indubbiamente aumentata. Io penso che questo che stiamo vivendo sia un momento che si ricorderà in futuro. Quello che si deve prendere di buono da questo momento è che il documentario è un tipo di cinema che mette al centro la relazione umana, e questo è rivoluzionario nella nostra società, e può essere realizzato con pochi soldi, in una modalità povera. Questi due elementi secondo me sono rivoluzionari e sono quelli che andrebbero portati in tutte le altre modalità di espressione: relazione umana al centro, fatta con pochi soldi. Perché è uno scempio fare fiction documentari, film con milioni di euro è profondamente ingiusto. Il documentario può insegnare tanto alle altre discipline.


Hai mai pensato di realizzare un film di finzione?

Quando ho iniziato con i corti pensavo fosse la mia palestra per il lungometraggio. Poi mi sono dato al documentario perché, potendo non avere grosse produzioni alle spalle , permetteva di esprimermi in qualche modo con un’opera anche lunga. Ormai per me è diventata una missione: faccio documentari perché credo nei documentari. Quindi se ti dovessi dire il mio punto di vista sul mondo della fiction ti dico che sono politicamente contro. Certo mi accorgo che ci sono delle cose, tornando ai miei traumi e di come vivo la vita, che attraverso la fiction potrei raccontare meglio. Potrei coinvolgere meno le persone vere che hanno vissuto cose che ancora oggi mi addolorano. Però anche se un giorno approderò al cinema di finzione, mi ricorderò sempre da dove sono venuto: prima la relazione umana e poi pochi soldi.

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